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Dentro al cristallo che ‘l vocabol porta, cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,

di color d’oro in che raggio traluce
vid’io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.

Vidi anche per li gradi scender giuso tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume;

poi altre vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon se’ onde son mosse, e altre roteando fan soggiorno;

tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che ‘nsieme venne, si` come in certo grado si percosse.

E quel che presso piu` ci si ritenne, si fe’ si` chiaro, ch’io dicea pensando: ‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.

Ma quella ond’io aspetto il come e ‘l quando del dire e del tacer, si sta; ond’io,
contra ‘l disio, fo ben ch’io non dimando’.

Per ch’ella, che vedea il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede, mi disse: <>.

E io incominciai: < non mi fa degno de la tua risposta; ma per colei che ‘l chieder mi concede,

vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota la cagion che si` presso mi t’ha posta;

e di’ perche’ si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che giu` per l’altre suona si` divota>>.

<

Ma l’alta carita`, che ci fa serve
pronte al consiglio che ‘l mondo governa, sorteggia qui si` come tu osserve>>.

<>, diss’io, < come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna;

ma questo e` quel ch’a cerner mi par forte, perche’ predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte>>.

Ne’ venni prima a l’ultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro, girando se’ come veloce mola;

poi rispuose l’amor che v’era dentro: < penetrando per questa in ch’io m’inventro,

la cui virtu`, col mio veder congiunta, mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
la somma essenza de la quale e` munta.

Quinci vien l’allegrezza ond’io fiammeggio; per ch’a la vista mia, quant’ella e` chiara, la chiarita` de la fiamma pareggio.

Ma quell’alma nel ciel che piu` si schiara, quel serafin che ‘n Dio piu` l’occhio ha fisso, a la dimanda tua non satisfara,

pero` che si` s’innoltra ne lo abisso de l’etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista e` scisso.

E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, si` che non presumma a tanto segno piu` mover li piedi.

La mente, che qui luce, in terra fumma; onde riguarda come puo` la` giue
quel che non pote perche’ ‘l ciel l’assumma>>.

Si` mi prescrisser le parole sue,
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi a dimandarla umilmente chi fue.

< e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ‘ troni assai suonan piu` bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria, di sotto al quale e` consecrato un ermo, che suole esser disposto a sola latria>>.

Cosi` ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continuando, disse: <<quivi
al servigio di Dio mi fe’ si` fermo,</quivi

che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli fertilemente; e ora e` fatto vano,
si` che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.

Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello, che pur di male in peggio si travasa.

Venne Cefas e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi, prendendo il cibo da qualunque ostello.

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

Cuopron d’i manti loro i palafreni,
si` che due bestie van sott’una pelle: oh pazienza che tanto sostieni!>>.

A questa voce vid’io piu` fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi, e ogne giro le facea piu` belle.

Dintorno a questa vennero e fermarsi, e fero un grido di si` alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;

ne’ io lo ‘ntesi, si` mi vinse il tuono.

Paradiso: Canto XXII

Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre cola` dove piu` si confida;

e quella, come madre che soccorre
subito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che ‘l suol ben disporre,

mi disse: < e non sai tu che ‘l cielo e` tutto santo, e cio` che ci si fa vien da buon zelo?

Come t’avrebbe trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
poscia che ‘l grido t’ha mosso cotanto;

nel qual, se ‘nteso avessi i prieghi suoi, gia` ti sarebbe nota la vendetta
che tu vedrai innanzi che tu muoi.

La spada di qua su` non taglia in fretta ne’ tardo, ma’ ch’al parer di colui
che disiando o temendo l’aspetta.

Ma rivolgiti omai inverso altrui;
ch’assai illustri spiriti vedrai,
se com’io dico l’aspetto redui>>.

Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che ‘nsieme
piu` s’abbellivan con mutui rai.

Io stava come quei che ‘n se’ repreme la punta del disio, e non s’attenta
di domandar, si` del troppo si teme;

e la maggiore e la piu` luculenta
di quelle margherite innanzi fessi, per far di se’ la mia voglia contenta.

Poi dentro a lei udi’: < com’io la carita` che tra noi arde, li tuoi concetti sarebbero espressi.

Ma perche’ tu, aspettando, non tarde
a l’alto fine, io ti faro` risposta pur al pensier, da che si` ti riguarde.

Quel monte a cui Cassino e` ne la costa fu frequentato gia` in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che su` vi portai prima lo nome di colui che ‘n terra addusse
la verita` che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti da l’empio colto che ‘l mondo sedusse.

Questi altri fuochi tutti contemplanti uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e ‘ frutti santi.

Qui e` Maccario, qui e` Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo>>.

E io a lui: <<l’affetto che=”” dimostri<br=””> meco parlando, e la buona sembianza ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,</l’affetto>

cosi` m’ha dilatata mia fidanza,
come ‘l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant’ell’ha di possanza.

Pero` ti priego, e tu, padre, m’accerta s’io posso prender tanta grazia, ch’io
ti veggia con imagine scoverta>>.

Ond’elli: <<frate, il=”” tuo=”” alto=”” disio<br=””> s’adempiera` in su l’ultima spera, ove s’adempion tutti li altri e ‘l mio.</frate,>

Ivi e` perfetta, matura e intera
ciascuna disianza; in quella sola
e` ogne parte la` ove sempr’era,

perche’ non e` in loco e non s’impola; e nostra scala infino ad essa varca,
onde cosi` dal viso ti s’invola.

Infin la` su` la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
quando li apparve d’angeli si` carca.

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa e` per danno de le carte.

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria.

Ma grave usura tanto non si tolle
contra ‘l piacer di Dio, quanto quel frutto che fa il cor de’ monaci si` folle;

che’ quantunque la Chiesa guarda, tutto e` de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti ne’ d’altro piu` brutto.

La carne d’i mortali e` tanto blanda, che giu` non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.

Pier comincio` sanz’oro e sanz’argento, e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;

e se guardi ‘l principio di ciascuno, poscia riguardi la` dov’e` trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.

Veramente Iordan volto retrorso
piu` fu, e ‘l mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder che qui ‘l soccorso>>.

Cosi` mi disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e ‘l collegio si strinse; poi, come turbo, in su` tutto s’avvolse.

La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala, si` sua virtu` la mia natura vinse;

ne’ mai qua giu` dove si monta e cala naturalmente, fu si` ratto moto
ch’agguagliar si potesse a la mia ala.

S’io torni mai, lettore, a quel divoto triunfo per lo quale io piango spesso
le mie peccata e ‘l petto mi percuoto,

tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quant’io vidi ‘l segno che segue il Tauro e fui dentro da esso.

O gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtu`, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’e` padre d’ogne mortal vita, quand’io senti’ di prima l’aere tosco;

e poi, quando mi fu grazia largita
d’entrar ne l’alta rota che vi gira, la vostra region mi fu sortita.

A voi divotamente ora sospira
l’anima mia, per acquistar virtute al passo forte che a se’ la tira.

<>,
comincio` Beatrice, < aver le luci tue chiare e acute;

e pero`, prima che tu piu` t’inlei,
rimira in giu`, e vedi quanto mondo sotto li piedi gia` esser ti fei;

si` che ‘l tuo cor, quantunque puo`, giocondo s’appresenti a la turba triunfante
che lieta vien per questo etera tondo>>.

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;

e quel consiglio per migliore approbo che l’ha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo.

Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ombra che mi fu cagione per che gia` la credetti rara e densa.

L’aspetto del tuo nato, Iperione,
quivi sostenni, e vidi com’si move circa e vicino a lui Maia e Dione.

Quindi m’apparve il temperar di Giove tra ‘l padre e ‘l figlio: e quindi mi fu chiaro il variar che fanno di lor dove;

e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo.

L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli, tutta m’apparve da’ colli a le foci;

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

Paradiso: Canto XXIII

Come l’augello, intra l’amate fronde, posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disiati
e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati,

previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;

cosi` la donna mia stava eretta
e attenta, rivolta inver’ la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta:

si` che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual e` quei che disiando
altro vorria, e sperando s’appaga.

Ma poco fu tra uno e altro quando,
del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir piu` e piu` rischiarando;

e Beatrice disse: < del triunfo di Cristo e tutto ‘l frutto ricolto del girar di queste spere!>>.

Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia si` pieni,
che passarmen convien sanza costrutto.

Quale ne’ plenilunii sereni
Trivia ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,

vid’i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea, come fa ‘l nostro le viste superne;

e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.

Oh Beatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: < e` virtu` da cui nulla si ripara.

Quivi e` la sapienza e la possanza
ch’apri` le strade tra ‘l cielo e la terra, onde fu gia` si` lunga disianza>>.

Come foco di nube si diserra
per dilatarsi si` che non vi cape, e fuor di sua natura in giu` s’atterra,

la mente mia cosi`, tra quelle dape
fatta piu` grande, di se’ stessa uscio, e che si fesse rimembrar non sape.

< tu hai vedute cose, che possente
se’ fatto a sostener lo riso mio>>.

Io era come quei che si risente
di visione oblita e che s’ingegna
indarno di ridurlasi a la mente,

quand’io udi’ questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue del libro che ‘l preterito rassegna.

Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polimnia con le suore fero
del latte lor dolcissimo piu` pingue,

per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero;

e cosi`, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.

Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott’esso trema:

non e` pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora, ne’ da nocchier ch’a se’ medesmo parca.

<<perche’ la=”” faccia=”” mia=”” si`=”” t’innamora,<br=””> che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo s’infiora?</perche’>

Quivi e` la rosa in che ‘l verbo divino carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino>>.

Cosi` Beatrice; e io, che a’ suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei
a la battaglia de’ debili cigli.

Come a raggio di sol che puro mei
per fratta nube, gia` prato di fiori vider, coverti d’ombra, li occhi miei;

vid’io cosi` piu` turbe di splendori, folgorate di su` da raggi ardenti,
sanza veder principio di folgori.

O benigna vertu` che si` li ‘mprenti, su` t’essaltasti, per largirmi loco
a li occhi li` che non t’eran possenti.

Il nome del bel fior ch’io sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse
l’animo ad avvisar lo maggior foco;

e come ambo le luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella che la` su` vince come qua giu` vinse,

per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia piu` dolce suona
qua giu` e piu` a se’ l’anima tira, parrebbe nube che squarciata tona,

comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel piu` chiaro s’inzaffira.

< l’alta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro;

e girerommi, donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia piu` la spera suprema perche’ li` entre>>.

Cosi` la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria.

Lo real manto di tutti i volumi
del mondo, che piu` ferve e piu` s’avviva ne l’alito di Dio e nei costumi,

avea sopra di noi l’interna riva
tanto distante, che la sua parvenza, la` dov’io era, ancor non appariva:

pero` non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma
che si levo` appresso sua semenza.

E come fantolin che ‘nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ‘l latte prese, per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma;

ciascun di quei candori in su` si stese con la sua cima, si` che l’alto affetto ch’elli avieno a Maria mi fu palese.

Indi rimaser li` nel mio cospetto,
‘Regina celi’ cantando si` dolce,
che mai da me non si parti` ‘l diletto.

Oh quanta e` l’uberta` che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro
a seminar qua giu` buone bobolce!

Quivi si vive e gode del tesoro
che s’acquisto` piangendo ne lo essilio di Babillon, ove si lascio` l’oro.

Quivi triunfa, sotto l’alto Filio
di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con l’antico e col novo concilio,

colui che tien le chiavi di tal gloria.

Paradiso: Canto XXIV

< del benedetto Agnello, il qual vi ciba si`, che la vostra voglia e` sempre piena,

se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa, prima che morte tempo li prescriba,

ponete mente a l’affezione immensa
e roratelo alquanto: voi bevete
sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa>>.

Cosi` Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, a volte, a guisa di comete.

E come cerchi in tempra d’oriuoli
si giran si`, che ‘l primo a chi pon mente quieto pare, e l’ultimo che voli;

cosi` quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente.

Di quella ch’io notai di piu` carezza vid’io uscire un foco si` felice,
che nullo vi lascio` di piu` chiarezza;

e tre fiate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.

Pero` salta la penna e non lo scrivo: che’ l’imagine nostra a cotai pieghe,
non che ‘l parlare, e` troppo color vivo.

< divota, per lo tuo ardente affetto da quella bella spera mi disleghe>>.

Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzo` lo spiro,
che favello` cosi` com’i’ ho detto.

Ed ella: < a cui Nostro Segnor lascio` le chiavi, ch’ei porto` giu`, di questo gaudio miro,

tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede, per la qual tu su per lo mare andavi.

S’elli ama bene e bene spera e crede, non t’e` occulto, perche’ ‘l viso hai quivi dov’ogne cosa dipinta si vede;

ma perche’ questo regno ha fatto civi per la verace fede, a gloriarla,
di lei parlare e` ben ch’a lui arrivi>>.

Si` come il baccialier s’arma e non parla fin che ‘l maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla,

cosi` m’armava io d’ogne ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto a tal querente e a tal professione.

<<di’, buon=”” cristiano,=”” fatti=”” manifesto:<br=””> fede che e`?>>. Ond’io levai la fronte in quella luce onde spirava questo;</di’,>

poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte sembianze femmi perch’io spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.

< faccia li miei concetti bene espressi>>.

E seguitai: <<come ‘l=”” verace=”” stilo<br=””> ne scrisse, padre, del tuo caro frate che mise teco Roma nel buon filo,

fede e` sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate>>.

Allora udi’: < se bene intendi perche’ la ripuose tra le sustanze, e poi tra li argomenti>>.

E io appresso: < che mi largiscon qui la lor parvenza, a li occhi di la` giu` son si` ascose,

che l’esser loro v’e` in sola credenza, sopra la qual si fonda l’alta spene;
e pero` di sustanza prende intenza.

E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz’avere altra vista: pero` intenza d’argomento tene>>.

Allora udi’: < giu` per dottrina, fosse cosi` ‘nteso, non li` avria loco ingegno di sofista>>.

Cosi` spiro` di quello amore acceso;
indi soggiunse: < d’esta moneta gia` la lega e ‘l peso;

ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa>>. Ond’io: <<si` ho,=”” si`=”” lucida=”” e=”” tonda,<br=””> che nel suo conio nulla mi s’inforsa>>.</si`>

Appresso usci` de la luce profonda
che li` splendeva: < sopra la quale ogne virtu` si fonda,

onde ti venne?>>. E io: < de lo Spirito Santo, ch’e` diffusa in su le vecchie e ‘n su le nuove cuoia,

e` silogismo che la m’ha conchiusa
acutamente si`, che ‘nverso d’ella ogne dimostrazion mi pare ottusa>>.

Io udi’ poi: <<l’antica e=”” la=”” novella<br=””> proposizion che cosi` ti conchiude, perche’ l’hai tu per divina favella?>>.</l’antica>

E io: < son l’opere seguite, a che natura
non scalda ferro mai ne’ batte incude>>.

Risposto fummi: <<di’, chi=”” t’assicura<br=””> che quell’opere fosser? Quel medesmo che vuol provarsi, non altri, il ti giura>>.</di’,>

<<se ‘l=”” mondo=”” si=”” rivolse=”” al=”” cristianesmo=””>>, diss’io, < in campo, a seminar la buona pianta che fu gia` vite e ora e` fatta pruno>>.

Finito questo, l’alta corte santa
risono` per le spere un ‘Dio laudamo’ ne la melode che la` su` si canta.

E quel baron che si` di ramo in ramo, essaminando, gia` tratto m’avea,
che a l’ultime fronde appressavamo,

ricomincio`: < con la tua mente, la bocca t’aperse infino a qui come aprir si dovea,

si` ch’io approvo cio` che fuori emerse; ma or conviene espremer quel che credi, e onde a la credenza tua s’offerse>>.

< cio` che credesti si`, che tu vincesti ver’ lo sepulcro piu` giovani piedi>>,

comincia’ io, < la forma qui del pronto creder mio, e anche la cagion di lui chiedesti.

E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ‘l ciel move, non moto, con amore e con disio;

e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verita` che quinci piove

per Moise`, per profeti e per salmi,
per l’Evangelio e per voi che scriveste poi che l’ardente Spirto vi fe’ almi;

e credo in tre persone etterne, e queste credo una essenza si` una e si` trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.

De la profonda condizion divina
ch’io tocco mo, la mente mi sigilla piu` volte l’evangelica dottrina.

Quest’e` ‘l principio, quest’e` la favilla che si dilata in fiamma poi vivace,
e come stella in cielo in me scintilla>>.

Come ‘l segnor ch’ascolta quel che i piace, da indi abbraccia il servo, gratulando
per la novella, tosto ch’el si tace;

cosi`, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, si` com’io tacqui, l’appostolico lume al cui comando

io avea detto: si` nel dir li piacqui!

Paradiso: Canto XXV

Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra, si` che m’ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudelta` che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra;

con altra voce omai, con altro vello
ritornero` poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prendero` ‘l cappello;

pero` che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi Pietro per lei si` mi giro` la fronte.

Indi si mosse un lume verso noi
di quella spera ond’usci` la primizia che lascio` Cristo d’i vicari suoi;

e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: <<mira, mira:=”” ecco=”” il=”” barone<br=””> per cui la` giu` si vicita Galizia>>.</mira,>

Si` come quando il colombo si pone
presso al compagno, l’uno a l’altro pande, girando e mormorando, l’affezione;

cosi` vid’io l’un da l’altro grande
principe glorioso essere accolto,
laudando il cibo che la` su` li prande.

Ma poi che ‘l gratular si fu assolto, tacito coram me ciascun s’affisse,
ignito si` che vincea ‘l mio volto.

Ridendo allora Beatrice disse:
< de la nostra basilica si scrisse,

fa risonar la spene in questa altezza: tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesu` ai tre fe’ piu` carezza>>.

< che cio` che vien qua su` del mortal mondo, convien ch’ai nostri raggi si maturi>>.

Questo conforto del foco secondo
mi venne; ond’io levai li occhi a’ monti che li ‘ncurvaron pria col troppo pondo.

< ne l’aula piu` secreta co’ suoi conti,

si` che, veduto il ver di questa corte, la spene, che la` giu` bene innamora,
in te e in altrui di cio` conforte,

di’ quel ch’ell’e`, di’ come se ne ‘nfiora la mente tua, e di` onde a te venne>>.
Cosi` segui` ‘l secondo lume ancora.

E quella pia che guido` le penne
de le mie ali a cosi` alto volo,
a la risposta cosi` mi prevenne:

< non ha con piu` speranza, com’e` scritto nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:

pero` li e` conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che ‘l militar li sia prescritto.

Li altri due punti, che non per sapere son dimandati, ma perch’ei rapporti
quanto questa virtu` t’e` in piacere,

a lui lasc’io, che’ non li saran forti ne’ di iattanza; ed elli a cio` risponda, e la grazia di Dio cio` li comporti>>.

Come discente ch’a dottor seconda
pronto e libente in quel ch’elli e` esperto, perche’ la sua bonta` si disasconda,

<>, diss’io, <<e` uno=”” attender=”” certo<br=””> de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto.</e`>

Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillo` nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce.

‘Sperino in te’, ne la sua teodia
dice, ‘color che sanno il nome tuo’: e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?

Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; si` ch’io son pieno, e in altrui vostra pioggia repluo>>.

Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo
subito e spesso a guisa di baleno.

Indi spiro`: <<l’amore ond’io=”” avvampo<br=””> ancor ver’ la virtu` che mi seguette infin la palma e a l’uscir del campo,</l’amore>

vuol ch’io respiri a te che ti dilette di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti ‘mpromette>>.

E io: < pongon lo segno, ed esso lo mi addita, de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.

Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta: e la sua terra e` questa dolce vita;

e ‘l tuo fratello assai vie piu` digesta, la` dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta>>.

E prima, appresso al fin d’este parole, ‘Sperent in te’ di sopr’a noi s’udi`;
a che rispuoser tutte le carole.

Poscia tra esse un lume si schiari`
si` che, se ‘l Cancro avesse un tal cristallo, l’inverno avrebbe un mese d’un sol di`.

E come surge e va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
a la novizia, non per alcun fallo,

cosi` vid’io lo schiarato splendore
venire a’ due che si volgieno a nota qual conveniesi al loro ardente amore.

Misesi li` nel canto e ne la rota;
e la mia donna in lor tenea l’aspetto, pur come sposa tacita e immota.

< di su la croce al grande officio eletto>>.

La donna mia cosi`; ne’ pero` piue
mosser la vista sua di stare attenta poscia che prima le parole sue.

Qual e` colui ch’adocchia e s’argomenta di vedere eclissar lo sole un poco,
che, per veder, non vedente diventa;

tal mi fec’io a quell’ultimo foco
mentre che detto fu: <<perche’ t’abbagli<br=””> per veder cosa che qui non ha loco?</perche’>

In terra e` terra il mio corpo, e saragli tanto con li altri, che ‘l numero nostro con l’etterno proposito s’agguagli.

Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostro>>.

A questa voce l’infiammato giro
si quieto` con esso il dolce mischio che si facea nel suon del trino spiro,

si` come, per cessar fatica o rischio, li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d’un fischio.

Ahi quanto ne la mente mi commossi,
quando mi volsi per veder Beatrice, per non poter veder, benche’ io fossi

presso di lei, e nel mondo felice!

Paradiso: Canto XXVI

Mentr’io dubbiava per lo viso spento, de la fulgida fiamma che lo spense
usci` un spiro che mi fece attento,

dicendo: < de la vista che hai in me consunta, ben e` che ragionando la compense.

Comincia dunque; e di’ ove s’appunta
l’anima tua, e fa’ ragion che sia
la vista in te smarrita e non defunta:

perche’ la donna che per questa dia
region ti conduce, ha ne lo sguardo la virtu` ch’ebbe la man d’Anania>>.

Io dissi: < vegna remedio a li occhi, che fuor porte quand’ella entro` col foco ond’io sempr’ardo.

Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O e` di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte>>.

Quella medesma voce che paura
tolta m’avea del subito abbarbaglio, di ragionare ancor mi mise in cura;

e disse: < ti conviene schiarar: dicer convienti chi drizzo` l’arco tuo a tal berzaglio>>.

E io: < e per autorita` che quinci scende
cotale amor convien che in me si ‘mprenti:

che’ ‘l bene, in quanto ben, come s’intende, cosi` accende amore, e tanto maggio
quanto piu` di bontate in se’ comprende.

Dunque a l’essenza ov’e` tanto avvantaggio, che ciascun ben che fuor di lei si trova altro non e` ch’un lume di suo raggio,

piu` che in altra convien che si mova la mente, amando, di ciascun che cerne
il vero in che si fonda questa prova.

Tal vero a l’intelletto mio sterne
colui che mi dimostra il primo amore di tutte le sustanze sempiterne.

Sternel la voce del verace autore,
che dice a Moise`, di se’ parlando: ‘Io ti faro` vedere ogne valore’.

Sternilmi tu ancora, incominciando
l’alto preconio che grida l’arcano di qui la` giu` sovra ogne altro bando>>.

E io udi’: < e per autoritadi a lui concorde
d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.

Ma di’ ancor se tu senti altre corde
tirarti verso lui, si` che tu suone con quanti denti questo amor ti morde>>.

Non fu latente la santa intenzione
de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi dove volea menar mia professione.

Pero` ricominciai: < che posson far lo cor volgere a Dio, a la mia caritate son concorsi:

che’ l’essere del mondo e l’esser mio, la morte ch’el sostenne perch’io viva,
e quel che spera ogne fedel com’io,

con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar de l’amor torto, e del diritto m’han posto a la riva.

Le fronde onde s’infronda tutto l’orto de l’ortolano etterno, am’io cotanto
quanto da lui a lor di bene e` porto>>.

Si` com’io tacqui, un dolcissimo canto risono` per lo cielo, e la mia donna
dicea con li altri: <<santo, santo,=”” santo!=””>>.</santo,>

E come a lume acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
a lo splendor che va di gonna in gonna,

e lo svegliato cio` che vede aborre,
si` nescia e` la subita vigilia
fin che la stimativa non soccorre;

cosi` de li occhi miei ogni quisquilia fugo` Beatrice col raggio d’i suoi,
che rifulgea da piu` di mille milia:

onde mei che dinanzi vidi poi;
e quasi stupefatto domandai
d’un quarto lume ch’io vidi tra noi.

E la mia donna: < vagheggia il suo fattor l’anima prima che la prima virtu` creasse mai>>.

Come la fronda che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva per la propria virtu` che la soblima,

fec’io in tanto in quant’ella diceva, stupendo, e poi mi rifece sicuro
un disio di parlare ond’io ardeva.

E cominciai: < solo prodotto fosti, o padre antico a cui ciascuna sposa e` figlia e nuro,

divoto quanto posso a te supplico
perche’ mi parli: tu vedi mia voglia, e per udirti tosto non la dico>>.

Talvolta un animal coverto broglia,
si` che l’affetto convien che si paia per lo seguir che face a lui la ‘nvoglia;

e similmente l’anima primaia
mi facea trasparer per la coverta
quant’ella a compiacermi venia gaia.

Indi spiro`: <<sanz’essermi proferta<br=””> da te, la voglia tua discerno meglio che tu qualunque cosa t’e` piu` certa;</sanz’essermi>

perch’io la veggio nel verace speglio che fa di se’ pareglio a l’altre cose,
e nulla face lui di se’ pareglio.

Tu vuogli udir quant’e` che Dio mi puose ne l’eccelso giardino, ove costei
a cosi` lunga scala ti dispuose,

e quanto fu diletto a li occhi miei,
e la propria cagion del gran disdegno, e l’idioma ch’usai e che fei.

Or, figluol mio, non il gustar del legno fu per se’ la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno.

Quindi onde mosse tua donna Virgilio, quattromilia trecento e due volumi
di sol desiderai questo concilio;

e vidi lui tornare a tutt’i lumi
de la sua strada novecento trenta
fiate, mentre ch’io in terra fu’ mi.

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta innanzi che a l’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembrot attenta:

che’ nullo effetto mai razionabile,
per lo piacere uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.

Opera naturale e` ch’uom favella;
ma cosi` o cosi`, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, I s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;

e El si chiamo` poi: e cio` convene,
che’ l’uso d’i mortali e` come fronda in ramo, che sen va e altra vene.

Nel monte che si leva piu` da l’onda, fu’ io, con vita pura e disonesta,
da la prim’ora a quella che seconda,

come ‘l sol muta quadra, l’ora sesta>>.

Paradiso: Canto XXVII

‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’, comincio`, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso, si` che m’inebriava il dolce canto.

Cio` ch’io vedeva mi sembiava un riso de l’universo; per che mia ebbrezza
intrava per l’udire e per lo viso.

Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita integra d’amore e di pace! oh sanza brama sicura ricchezza!

Dinanzi a li occhi miei le quattro face stavano accese, e quella che pria venne incomincio` a farsi piu` vivace,

e tal ne la sembianza sua divenne,
qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte fossero augelli e cambiassersi penne.

La provedenza, che quivi comparte
vice e officio, nel beato coro
silenzio posto avea da ogne parte,

quand’io udi’: < non ti maravigliar, che’, dicend’io, vedrai trascolorar tutti costoro.

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,

fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso che cadde di qua su`, la` giu` si placa>>.

Di quel color che per lo sole avverso nube dipigne da sera e da mane,
vid’io allora tutto ‘l ciel cosperso.

E come donna onesta che permane
di se’ sicura, e per l’altrui fallanza, pur ascoltando, timida si fane,

cosi` Beatrice trasmuto` sembianza;
e tale eclissi credo che ‘n ciel fue, quando pati` la supprema possanza.

Poi procedetter le parole sue
con voce tanto da se’ trasmutata,
che la sembianza non si muto` piue:

< del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, per essere ad acquisto d’oro usata;

ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pio e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.

Non fu nostra intenzion ch’a destra mano d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;

ne’ che le chiavi che mi fuor concesse, divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;

ne’ ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’io sovente arrosso e disfavillo.

In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua su` per tutti i paschi: o difesa di Dio, perche’ pur giaci?

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio, a che vil fine convien che tu caschi!

Ma l’alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo, soccorra` tosto, si` com’io concipio;

e tu, figliuol, che per lo mortal pondo ancor giu` tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo>>.

Si` come di vapor gelati fiocca
in giuso l’aere nostro, quando ‘l corno de la capra del ciel col sol si tocca,

in su` vid’io cosi` l’etera addorno
farsi e fioccar di vapor triunfanti che fatto avien con noi quivi soggiorno.

Lo viso mio seguiva i suoi sembianti, e segui` fin che ‘l mezzo, per lo molto, li tolse il trapassar del piu` avanti.

Onde la donna, che mi vide assolto
de l’attendere in su`, mi disse: <<adima
il viso e guarda come tu se’ volto>>.</adima

Da l’ora ch’io avea guardato prima
i’ vidi mosso me per tutto l’arco
che fa dal mezzo al fine il primo clima;

si` ch’io vedea di la` da Gade il varco folle d’Ulisse, e di qua presso il lito nel qual si fece Europa dolce carco.

E piu` mi fora discoverto il sito
di questa aiuola; ma ‘l sol procedea sotto i mie’ piedi un segno e piu` partito.

La mente innamorata, che donnea
con la mia donna sempre, di ridure ad essa li occhi piu` che mai ardea;

e se natura o arte fe’ pasture
da pigliare occhi, per aver la mente, in carne umana o ne le sue pitture,

tutte adunate, parrebber niente
ver’ lo piacer divin che mi refulse, quando mi volsi al suo viso ridente.

E la virtu` che lo sguardo m’indulse, del bel nido di Leda mi divelse,
e nel ciel velocissimo m’impulse.

Le parti sue vivissime ed eccelse
si` uniforme son, ch’i’ non so dire qual Beatrice per loco mi scelse.

Ma ella, che vedea ‘l mio disire,
incomincio`, ridendo tanto lieta,
che Dio parea nel suo volto gioire:

< il mezzo e tutto l’altro intorno move, quinci comincia come da sua meta;

e questo cielo non ha altro dove
che la mente divina, in che s’accende l’amor che ‘l volge e la virtu` ch’ei piove.

Luce e amor d’un cerchio lui comprende, si` come questo li altri; e quel precinto colui che ‘l cinge solamente intende.

Non e` suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo, si` come diece da mezzo e da quinto;

e come il tempo tegna in cotal testo
le sue radici e ne li altri le fronde, omai a te puo` esser manifesto.

Oh cupidigia che i mortali affonde
si` sotto te, che nessuno ha podere di trarre li occhi fuor de le tue onde!

Ben fiorisce ne li uomini il volere;
ma la pioggia continua converte
in bozzacchioni le sosine vere.

Fede e innocenza son reperte
solo ne’ parvoletti; poi ciascuna
pria fugge che le guance sian coperte.

Tale, balbuziendo ancor, digiuna,
che poi divora, con la lingua sciolta, qualunque cibo per qualunque luna;

e tal, balbuziendo, ama e ascolta
la madre sua, che, con loquela intera, disia poi di vederla sepolta.

Cosi` si fa la pelle bianca nera
nel primo aspetto de la bella figlia di quel ch’apporta mane e lascia sera.

Tu, perche’ non ti facci maraviglia,
pensa che ‘n terra non e` chi governi; onde si` svia l’umana famiglia.

Ma prima che gennaio tutto si sverni
per la centesma ch’e` la` giu` negletta, raggeran si` questi cerchi superni,

che la fortuna che tanto s’aspetta,
le poppe volgera` u’ son le prore, si` che la classe correra` diretta;

e vero frutto verra` dopo ‘l fiore>>.

Paradiso: Canto XXVIII

Poscia che ‘ncontro a la vita presente d’i miseri mortali aperse ‘l vero
quella che ‘mparadisa la mia mente,

come in lo specchio fiamma di doppiero vede colui che se n’alluma retro,
prima che l’abbia in vista o in pensiero,

e se’ rivolge per veder se ‘l vetro
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda con esso come nota con suo metro;

cosi` la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi onde a pigliarmi fece Amor la corda.

E com’io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da cio` che pare in quel volume, quandunque nel suo giro ben s’adocchi,

un punto vidi che raggiava lume
acuto si`, che ‘l viso ch’elli affoca chiuder conviensi per lo forte acume;

e quale stella par quinci piu` poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si colloca.

Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che ‘l dipigne
quando ‘l vapor che ‘l porta piu` e` spesso,

distante intorno al punto un cerchio d’igne si girava si` ratto, ch’avria vinto
quel moto che piu` tosto il mondo cigne;

e questo era d’un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto, dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.

Sopra seguiva il settimo si` sparto
gia` di larghezza, che ‘l messo di Iuno intero a contenerlo sarebbe arto.

Cosi` l’ottavo e ‘l nono; e chiascheduno piu` tardo si movea, secondo ch’era
in numero distante piu` da l’uno;

e quello avea la fiamma piu` sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, pero` che piu` di lei s’invera.

La donna mia, che mi vedea in cura
forte sospeso, disse: < depende il cielo e tutta la natura.

Mira quel cerchio che piu` li e` congiunto; e sappi che ‘l suo muovere e` si` tosto per l’affocato amore ond’elli e` punto>>.

E io a lei: <<se ‘l=”” mondo=”” fosse=”” posto<br=””> con l’ordine ch’io veggio in quelle rote, sazio m’avrebbe cio` che m’e` proposto;

ma nel mondo sensibile si puote
veder le volte tanto piu` divine,
quant’elle son dal centro piu` remote.

Onde, se ‘l mio disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
che solo amore e luce ha per confine,

udir convienmi ancor come l’essemplo
e l’essemplare non vanno d’un modo, che’ io per me indarno a cio` contemplo>>.

< sufficienti, non e` maraviglia:
tanto, per non tentare, e` fatto sodo!>>.

Cosi` la donna mia; poi disse: <<piglia
quel ch’io ti dicero`, se vuo’ saziarti; e intorno da esso t’assottiglia.</piglia

Li cerchi corporai sono ampi e arti
secondo il piu` e ‘l men de la virtute che si distende per tutte lor parti.

Maggior bonta` vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape,
s’elli ha le parti igualmente compiute.

Dunque costui che tutto quanto rape
l’altro universo seco, corrisponde al cerchio che piu` ama e che piu` sape:

per che, se tu a la virtu` circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t’appaion tonde,

tu vederai mirabil consequenza
di maggio a piu` e di minore a meno, in ciascun cielo, a sua intelligenza>>.

Come rimane splendido e sereno
l’emisperio de l’aere, quando soffia Borea da quella guancia ond’e` piu` leno,

per che si purga e risolve la roffia
che pria turbava, si` che ‘l ciel ne ride con le bellezze d’ogne sua paroffia;

cosi` fec’io, poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro, e come stella in cielo il ver si vide.

E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.

L’incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che ‘l numero loro
piu` che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla.

Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi, e terra` sempre, ne’ quai sempre fuoro.

E quella che vedea i pensier dubi
ne la mia mente, disse: < t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.

Cosi` veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno; e posson quanto a veder son soblimi.

Quelli altri amori che ‘ntorno li vonno, si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ‘l primo ternaro terminonno;

e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.

Quinci si puo` veder come si fonda
l’essere beato ne l’atto che vede, non in quel ch’ama, che poscia seconda;

e del vedere e` misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia: cosi` di grado in grado si procede.

L’altro ternaro, che cosi` germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia,

perpetualemente ‘Osanna’ sberna
con tre melode, che suonano in tree ordini di letizia onde s’interna.

In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi ee.

Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo e` tutto d’Angelici ludi.

Questi ordini di su` tutti s’ammirano, e di giu` vincon si`, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.

E Dionisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise, che li nomo` e distinse com’io.

Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, si` tosto come li occhi aperse in questo ciel, di se’ medesmo rise.

E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri; che’ chi ‘l vide qua su` gliel discoperse

con altro assai del ver di questi giri>>.

Paradiso: Canto XXIX

Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra, fanno de l’orizzonte insieme zona,

quant’e` dal punto che ‘l cenit inlibra infin che l’uno e l’altro da quel cinto, cambiando l’emisperio, si dilibra,

tanto, col volto di riso dipinto,
si tacque Beatrice, riguardando
fiso nel punto che m’avea vinto.

Poi comincio`: < quel che tu vuoli udir, perch’io l’ho visto la` ‘ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.

Non per aver a se’ di bene acquisto,
ch’esser non puo`, ma perche’ suo splendore potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,

in sua etternita` di tempo fore,
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque, s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

Ne’ prima quasi torpente si giacque;
che’ ne’ prima ne’ poscia procedette lo discorrer di Dio sovra quest’acque.

Forma e materia, congiunte e purette, usciro ad esser che non avia fallo,
come d’arco tricordo tre saette.

E come in vetro, in ambra o in cristallo raggio resplende si`, che dal venire
a l’esser tutto non e` intervallo,

cosi` ‘l triforme effetto del suo sire ne l’esser suo raggio` insieme tutto
sanza distinzione in essordire.

Concreato fu ordine e costrutto
a le sustanze; e quelle furon cima nel mondo in che puro atto fu produtto;

pura potenza tenne la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto tal vime, che gia` mai non si divima.

Ieronimo vi scrisse lungo tratto
di secoli de li angeli creati
anzi che l’altro mondo fosse fatto;

ma questo vero e` scritto in molti lati da li scrittor de lo Spirito Santo,
e tu te n’avvedrai se bene agguati;

e anche la ragione il vede alquanto,
che non concederebbe che ‘ motori
sanza sua perfezion fosser cotanto.

Or sai tu dove e quando questi amori
furon creati e come: si` che spenti nel tuo disio gia` son tre ardori.

Ne’ giugneriesi, numerando, al venti
si` tosto, come de li angeli parte turbo` il suggetto d’i vostri alementi.

L’altra rimase, e comincio` quest’arte che tu discerni, con tanto diletto,
che mai da circuir non si diparte.

Principio del cader fu il maladetto
superbir di colui che tu vedesti
da tutti i pesi del mondo costretto.

Quelli che vedi qui furon modesti
a riconoscer se’ da la bontate
che li avea fatti a tanto intender presti:

per che le viste lor furo essaltate
con grazia illuminante e con lor merto, si c’hanno ferma e piena volontate;

e non voglio che dubbi, ma sia certo, che ricever la grazia e` meritorio
secondo che l’affetto l’e` aperto.

Omai dintorno a questo consistorio
puoi contemplare assai, se le parole mie son ricolte, sanz’altro aiutorio.

Ma perche’ ‘n terra per le vostre scole si legge che l’angelica natura
e` tal, che ‘ntende e si ricorda e vole,

ancor diro`, perche’ tu veggi pura
la verita` che la` giu` si confonde, equivocando in si` fatta lettura.

Queste sustanze, poi che fur gioconde de la faccia di Dio, non volser viso
da essa, da cui nulla si nasconde:

pero` non hanno vedere interciso
da novo obietto, e pero` non bisogna rememorar per concetto diviso;

si` che la` giu`, non dormendo, si sogna, credendo e non credendo dicer vero;
ma ne l’uno e` piu` colpa e piu` vergogna.

Voi non andate giu` per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l’amor de l’apparenza e ‘l suo pensiero!

E ancor questo qua su` si comporta
con men disdegno che quando e` posposta la divina Scrittura o quando e` torta.

Non vi si pensa quanto sangue costa
seminarla nel mondo e quanto piace chi umilmente con essa s’accosta.

Per apparer ciascun s’ingegna e face
sue invenzioni; e quelle son trascorse da’ predicanti e ‘l Vangelio si tace.

Un dice che la luna si ritorse
ne la passion di Cristo e s’interpuose, per che ‘l lume del sol giu` non si porse;

e mente, che’ la luce si nascose
da se’: pero` a li Spani e a l’Indi come a’ Giudei tale eclissi rispuose.

Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi
quante si` fatte favole per anno
in pergamo si gridan quinci e quindi;

si` che le pecorelle, che non sanno,
tornan del pasco pasciute di vento, e non le scusa non veder lo danno.

Non disse Cristo al suo primo convento: ‘Andate, e predicate al mondo ciance’;
ma diede lor verace fondamento;

e quel tanto sono` ne le sue guance,
si` ch’a pugnar per accender la fede de l’Evangelio fero scudo e lance.

Ora si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida, gonfia il cappuccio e piu` non si richiede.

Ma tale uccel nel becchetto s’annida, che se ‘l vulgo il vedesse, vederebbe
la perdonanza di ch’el si confida;

per cui tanta stoltezza in terra crebbe, che, sanza prova d’alcun testimonio,
ad ogne promession si correrebbe.

Di questo ingrassa il porco sant’Antonio, e altri assai che sono ancor piu` porci, pagando di moneta sanza conio.

Ma perche’ siam digressi assai, ritorci li occhi oramai verso la dritta strada, si` che la via col tempo si raccorci.

Questa natura si` oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
ne’ concetto mortal che tanto vada;

e se tu guardi quel che si revela
per Daniel, vedrai che ‘n sue migliaia determinato numero si cela.

La prima luce, che tutta la raia,
per tanti modi in essa si recepe,
quanti son li splendori a chi s’appaia.

Onde, pero` che a l’atto che concepe
segue l’affetto, d’amar la dolcezza diversamente in essa ferve e tepe.

Vedi l’eccelso omai e la larghezza
de l’etterno valor, poscia che tanti speculi fatti s’ha in che si spezza,

uno manendo in se’ come davanti>>.

Paradiso: Canto XXX

Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo china gia` l’ombra quasi al letto piano,

quando ‘l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;

e come vien la chiarissima ancella
del sol piu` oltre, cosi` ‘l ciel si chiude di vista in vista infino a la piu` bella.

Non altrimenti il triunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude,

a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Beatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.

Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.

La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di la` da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda.

Da questo passo vinto mi concedo
piu` che gia` mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo:

che’, come sole in viso che piu` trema, cosi` lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.

Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista,
non m’e` il seguire al mio cantar preciso;

ma or convien che mio seguir desista
piu` dietro a sua bellezza, poetando, come a l’ultimo suo ciascuno artista.

Cotal qual io lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce l’ardua sua matera terminando,

con atto e voce di spedito duce
ricomincio`: < del maggior corpo al ciel ch’e` pura luce:

luce intellettual, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore.

Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti che tu vedrai a l’ultima giustizia>>.

Come subito lampo che discetti
li spiriti visivi, si` che priva
da l’atto l’occhio di piu` forti obietti,

cosi` mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.

<

Non fur piu` tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch’io compresi
me sormontar di sopr’a mia virtute;

e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce e` tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi;

e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive;

poi, come inebriate da li odori,
riprofondavan se’ nel miro gurge;
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

<<l’alto disio=”” che=”” mo=”” t’infiamma=”” e=”” urge,<br=””> d’aver notizia di cio` che tu vei, tanto mi piace piu` quanto piu` turge;</l’alto>

ma di quest’acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi>>: cosi` mi disse il sol de li occhi miei.

Anche soggiunse: < ch’entrano ed escono e ‘l rider de l’erbe son di lor vero umbriferi prefazi.

Non che da se’ sian queste cose acerbe; ma e` difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe>>.

Non e` fantin che si` subito rua
col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l’usanza sua,

come fec’io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda che si deriva perche’ vi s’immegli;

e si` come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, cosi` mi parve di sua lunghezza divenuta tonda.

Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non sua in che disparve,

cosi` mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, si` ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.

O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto triunfo del regno verace,
dammi virtu` a dir com’io il vidi!

Lume e` la` su` che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.

E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.

Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza.

E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno, quando e` nel verde e ne’ fioretti opimo,

si`, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in piu` di mille soglie quanto di noi la` su` fatto ha ritorno.

E se l’infimo grado in se’ raccoglie
si` grande lume, quanta e` la larghezza di questa rosa ne l’estreme foglie!

La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ‘l quale di quella allegrezza.

Presso e lontano, li`, ne’ pon ne’ leva: che’ dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.

Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,

qual e` colui che tace e dicer vole,
mi trasse Beatrice, e disse: <<mira
quanto e` ‘l convento de le bianche stole!</mira

Vedi nostra citta` quant’ella gira;
vedi li nostri scanni si` ripieni, che poca gente piu` ci si disira.

E ‘n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che gia` v’e` su` posta,
prima che tu a queste nozze ceni,

sedera` l’alma, che fia giu` agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia verra` in prima ch’ella sia disposta.

La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.

E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non andera` con lui per un cammino.

Ma poco poi sara` da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sara` detruso la` dove Simon mago e` per suo merto,

e fara` quel d’Alagna intrar piu` giuso>>.

Paradiso: Canto XXXI

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;

ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la ‘nnamora e la bonta` che la fece cotanta,

si` come schiera d’ape, che s’infiora una fiata e una si ritorna
la` dove suo laboro s’insapora,

nel gran fior discendeva che s’addorna di tante foglie, e quindi risaliva
la` dove ‘l suo amor sempre soggiorna.

Le facce tutte avean di fiamma viva,
e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco, che nulla neve a quel termine arriva.

Quando scendean nel fior, di banco in banco porgevan de la pace e de l’ardore
ch’elli acquistavan ventilando il fianco.

Ne’ l’interporsi tra ‘l disopra e ‘l fiore di tanta moltitudine volante
impediva la vista e lo splendore:

che’ la luce divina e` penetrante
per l’universo secondo ch’e` degno, si` che nulla le puote essere ostante.

Questo sicuro e gaudioso regno,
frequente in gente antica e in novella, viso e amore avea tutto ad un segno.

O trina luce, che ‘n unica stella
scintillando a lor vista, si` li appaga! guarda qua giuso a la nostra procella!

Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d’Elice si cuopra,