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Dal ëvoií che prima a Roma síofferie, in che la sua famiglia men persevra,
ricominciaron le parole mie;

onde Beatrice, chíera un poco scevra, ridendo, parve quella che tossio
al primo fallo scritto di Ginevra.

Io cominciai: ´Voi siete il padre mio; voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sÏ, chíií son pi˘ chíio.

Per tanti rivi síempie díallegrezza la mente mia, che di sÈ fa letizia
perchÈ puÚ sostener che non si spezza.

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni che si segnaro in vostra p¸erizia;

ditemi de líovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti tra esso degne di pi˘ alti scanniª.

Come síavviva a lo spirar díi venti carbone in fiamma, cosÏ vidí io quella luce risplendere aí miei blandimenti;

e come a li occhi miei si fÈ pi˘ bella, cosÏ con voce pi˘ dolce e soave,
ma non con questa moderna favella,

dissemi: ´Da quel dÏ che fu detto ëAveí al parto in che mia madre, chíË or santa, síallevÔÚ di me ondí era grave,

al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria líultimo sesto da quei che corre il vostro ann¸al gioco.

Basti díi miei maggiori udirne questo: chi ei si fosser e onde venner quivi,
pi˘ Ë tacer che ragionare onesto.

Tutti color chía quel tempo eran ivi da poter arme tra Marte e íl Batista,
eran il quinto di quei chíor son vivi.

Ma la cittadinanza, chíË or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vediesi ne líultimo artista.

Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti chíio dico, e al Galluzzo e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro e sostener lo puzzo del villan díAguglion, di quel da Signa, che gi‡ per barattare ha líocchio aguzzo!

Se la gente chíal mondo pi˘ traligna non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,

tal fatto Ë fiorentino e cambia e merca, che si sarebbe vÚlto a Simifonti,
l‡ dove andava líavolo a la cerca;

sariesi Montemurlo ancor deí Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier díAcone, e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade, come del vostro il cibo che síappone;

e cieco toro pi˘ avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia pi˘ e meglio una che le cinque spade.

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

udir come le schiatte si disfanno
non ti parr‡ nova cosa nÈ forte, poscia che le cittadi termine hanno.

Le vostre cose tutte hanno lor morte, sÏ come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.

E come íl volger del ciel de la luna cuopre e discuopre i liti sanza posa,
cosÏ fa di Fiorenza la Fortuna:

per che non dee parer mirabil cosa
ciÚ chíio dirÚ de li alti Fiorentini onde Ë la fama nel tempo nascosa.

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, gi‡ nel calare, illustri cittadini;

e vidi cosÏ grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de líArca, e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

Sovra la porta chíal presente Ë carca di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,

erano i Ravignani, ondí Ë disceso
il conte Guido e qualunque del nome de líalto Bellincione ha poscia preso.

Quel de la Pressa sapeva gi‡ come
regger si vuole, e avea Galigaio
dorata in casa sua gi‡ líelsa e íl pome.

Grandí era gi‡ la colonna del Vaio, Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei chíarrossan per lo staio.

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era gi‡ grande, e gi‡ eran tratti a le curule Sizii e Arrigucci.

Oh quali io vidi quei che son disfatti per lor superbia! e le palle de líoro
fiorian Fiorenza in tuttí i suoi gran fatti.

CosÏ facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca, si fanno grassi stando a consistoro.

Líoltracotata schiatta che síindraca dietro a chi fugge, e a chi mostra íl dente o ver la borsa, comí agnel si placa,

gi‡ venÏa s˘, ma di picciola gente; sÏ che non piacque ad Ubertin Donato
che poÔ il suocero il fÈ lor parente.

Gi‡ era íl Caponsacco nel mercato
disceso gi˘ da Fiesole, e gi‡ era buon cittadino Giuda e Infangato.

Io dirÚ cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio síentrava per porta che si nomava da quei de la Pera.

Ciascun che de la bella insegna porta del gran barone il cui nome e íl cui pregio la festa di Tommaso riconforta,

da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.

Gi‡ eran Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo pi˘ quÔeto,
se di novi vicin fosser digiuni.

La casa di che nacque il vostro fleto, per lo giusto disdegno che víha morti
e puose fine al vostro viver lieto,

era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti le nozze s¸e per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi, se Dio tíavesse conceduto ad Ema
la prima volta chía citt‡ venisti.

Ma conveniesi a quella pietra scema
che guarda íl ponte, che Fiorenza fesse vittima ne la sua pace postrema.

Con queste genti, e con altre con esse, vidí io Fiorenza in sÏ fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.

Con queste genti vidíio glorÔoso
e giusto il popol suo, tanto che íl giglio non era ad asta mai posto a ritroso,

nÈ per divisÔon fatto vermiglioª.

Paradiso ∑ Canto XVII

Qual venne a ClimenË, per accertarsi di ciÚ chíavÎa incontro a sÈ udito,
quei chíancor fa li padri ai figli scarsi;

tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.

Per che mia donna ´Manda fuor la vampa del tuo disioª, mi disse, ´sÏ chíella esca segnata bene de la interna stampa:

non perchÈ nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perchÈ tíausi a dir la sete, sÏ che líuom ti mescaª.

´O cara piota mia che sÏ tíinsusi, che, come veggion le terrene menti
non capere in trÔangol due ottusi,

cosÏ vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sÈ, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti;

mentre chíio era a Virgilio congiunto su per lo monte che líanime cura
e discendendo nel mondo defunto,

dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna chíio mi senta ben tetragono ai colpi di ventura;

per che la voglia mia saria contenta
díintender qual fortuna mi síappressa: chÈ saetta previsa vien pi˘ lentaª.

CosÏ dissí io a quella luce stessa
che pria míavea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa.

NÈ per ambage, in che la gente folle gi‡ síinviscava pria che fosse anciso líAgnel di Dio che le peccata tolle,

ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno, chiuso e parvente del suo proprio riso:

´La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende,
tutta Ë dipinta nel cospetto etterno;

necessit‡ perÚ quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente gi˘ discende.

Da indi, sÏ come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti síapparecchia.

Qual si partio Ipolito díAtene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.

Questo si vuole e questo gi‡ si cerca, e tosto verr‡ fatto a chi ciÚ pensa
l‡ dove Cristo tutto dÏ si merca.

La colpa seguir‡ la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta fia testimonio al ver che la dispensa.

Tu lascerai ogne cosa diletta
pi˘ caramente; e questo Ë quello strale che líarco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sÏ come sa di sale
lo pane altrui, e come Ë duro calle lo scendere e íl salir per líaltrui scale.

E quel che pi˘ ti graver‡ le spalle, sar‡ la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia si far‡ contrí a te; ma, poco appresso, ella, non tu, níavr‡ rossa la tempia.

Di sua bestialitate il suo processo
far‡ la prova; sÏ chía te fia bello averti fatta parte per te stesso.

Lo primo tuo refugio e íl primo ostello sar‡ la cortesia del gran Lombardo
che ín su la scala porta il santo uccello;

chíin te avr‡ sÏ benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri Ë pi˘ tardo.

Con lui vedrai colui che ímpresso fue, nascendo, sÏ da questa stella forte,
che notabili fier líopere sue.

Non se ne son le genti ancora accorte per la novella et‡, chÈ pur nove anni son queste rote intorno di lui torte;

ma pria che íl Guasco líalto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute
in non curar díargento nÈ díaffanni.

Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sÏ che í suoi nemici non ne potran tener le lingue mute.

A lui tíaspetta e aí suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;

e porteraíne scritto ne la mente
di lui, e nol diraiª; e disse cose incredibili a quei che fier presente.

Poi giunse: ´Figlio, queste son le chiose di quel che ti fu detto; ecco le ínsidie che dietro a pochi giri son nascose.

Non voí perÚ chíaí tuoi vicini invidie, poscia che síinfutura la tua vita
vie pi˘ l‡ che íl punir di lor perfidieª.

Poi che, tacendo, si mostrÚ spedita
líanima santa di metter la trama
in quella tela chíio le porsi ordita,

io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:

´Ben veggio, padre mio, sÏ come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, chíË pi˘ grave a chi pi˘ síabbandona;

per che di provedenza Ë buon chíio míarmi, sÏ che, se loco míË tolto pi˘ caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.

Gi˘ per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,

e poscia per lo ciel, di lume in lume, ho io appreso quel che síio ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;

e síio al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno anticoª.

La luce in che rideva il mio tesoro
chíio trovai lÏ, si fÈ prima corusca, quale a raggio di sole specchio díoro;

indi rispuose: ´CoscÔenza fusca
o de la propria o de líaltrui vergogna pur sentir‡ la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visÔon fa manifesta;
e lascia pur grattar doví Ë la rogna.

ChÈ se la voce tua sar‡ molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascer‡ poi, quando sar‡ digesta.

Questo tuo grido far‡ come vento,
che le pi˘ alte cime pi˘ percuote; e ciÚ non fa díonor poco argomento.

PerÚ ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa
pur líanime che son di fama note,

che líanimo di quel chíode, non posa nÈ ferma fede per essempro chíaia
la sua radice incognita e ascosa,

nÈ per altro argomento che non paiaª.

Paradiso ∑ Canto XVIII

Gi‡ si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava lo mio, temprando col dolce líacerbo;

e quella donna chía Dio mi menava
disse: ´Muta pensier; pensa chíií sono presso a colui chíogne torto disgravaª.

Io mi rivolsi a líamoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi ne li occhi santi amor, qui líabbandono:

non perchí io pur del mio parlar diffidi, ma per la mente che non puÚ redire
sovra sÈ tanto, síaltri non la guidi.

Tanto possí io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire,

fin che íl piacere etterno, che diretto raggiava in BÎatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.

Vincendo me col lume díun sorriso,
ella mi disse: ´Volgiti e ascolta; chÈ non pur neí miei occhi Ë paradisoª.

Come si vede qui alcuna volta
líaffetto ne la vista, síelli Ë tanto, che da lui sia tutta líanima tolta,

cosÏ nel fiammeggiar del folgÛr santo, a chíio mi volsi, conobbi la voglia
in lui di ragionarmi ancora alquanto.

El cominciÚ: ´In questa quinta soglia de líalbero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde foglia,

spiriti son beati, che gi˘, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce, sÏ chíogne musa ne sarebbe opima.

PerÚ mira neí corni de la croce:
quello chíio nomerÚ, lÏ far‡ líatto che fa in nube il suo foco veloceª.

Io vidi per la croce un lume tratto
dal nomar IosuË, comí el si feo;
nÈ mi fu noto il dir prima che íl fatto.

E al nome de líalto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.

CosÏ per Carlo Magno e per Orlando
due ne seguÏ lo mio attento sguardo, comí occhio segue suo falcon volando.

Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
e íl duca Gottifredi la mia vista
per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

Indi, tra líaltre luci mota e mista, mostrommi líalma che míavea parlato
qual era tra i cantor del cielo artista.

Io mi rivolsi dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere, o per parlare o per atto, segnato;

e vidi le sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza vinceva li altri e líultimo solere.

E come, per sentir pi˘ dilettanza
bene operando, líuom di giorno in giorno síaccorge che la sua virtute avanza,

sÏ míaccorsí io che íl mio girare intorno col cielo insieme avea cresciuto líarco, veggendo quel miracol pi˘ addorno.

E qual Ë íl trasmutare in picciol varco di tempo in bianca donna, quando íl volto suo si discarchi di vergogna il carco,

tal fu ne li occhi miei, quando fui vÚlto, per lo candor de la temprata stella
sesta, che dentro a sÈ míavea ricolto.

Io vidi in quella giovÔal facella
lo sfavillar de líamor che lÏ era segnare a li occhi miei nostra favella.

E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sÈ or tonda or altra schiera,

sÏ dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.

Prima, cantando, a sua nota moviensi; poi, diventando líun di questi segni,
un poco síarrestavano e taciensi.

O diva PegasÎa che li íngegni
fai glorÔosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e í regni,

illustrami di te, sÏ chíio rilevi
le lor figure comí io lího concette: paia tua possa in questi versi brevi!

Mostrarsi dunque in cinque volte sette vocali e consonanti; e io notai
le parti sÏ, come mi parver dette.

ëDILIGITE IUSTITIAMí, primai
fur verbo e nome di tutto íl dipinto; ëQUI IUDICATIS TERRAMí, fur sezzai.

Poscia ne líemme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sÏ che Giove
pareva argento lÏ díoro distinto.

E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de líemme, e lÏ quetarsi cantando, credo, il ben chía sÈ le move.

Poi, come nel percuoter díi ciocchi arsi surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,

resurger parver quindi pi˘ di mille
luci e salir, qual assai e qual poco, sÏ come íl sol che líaccende sortille;

e quÔetata ciascuna in suo loco,
la testa e íl collo díuníaguglia vidi rappresentare a quel distinto foco.

Quei che dipinge lÏ, non ha chi íl guidi; ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virt˘ chíË forma per li nidi.

Líaltra bÎatitudo, che contenta
pareva prima díingigliarsi a líemme, con poco moto seguitÚ la ímprenta.

O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!

Per chíio prego la mente in che síinizia tuo moto e tua virtute, che rimiri
ondí esce il fummo che íl tuo raggio vizia;

sÏ chíuníaltra fÔata omai síadiri del comperare e vender dentro al templo
che si murÚ di segni e di martÏri.

O milizia del ciel cuí io contemplo, adora per color che sono in terra
tutti svÔati dietro al malo essemplo!

Gi‡ si solea con le spade far guerra; ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che íl pÔo Padre a nessun serra.

Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi.

Ben puoi tu dire: ´Ií ho fermo íl disiro sÏ a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,

chíio non conosco il pescator nÈ Poloª.

Paradiso ∑ Canto XIX

Parea dinanzi a me con líali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan líanime conserte;

parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sÏ acceso,
che neí miei occhi rifrangesse lui.

E quel che mi convien ritrar testeso, non portÚ voce mai, nÈ scrisse incostro, nÈ fu per fantasia gi‡ mai compreso;

chíio vidi e anche udií parlar lo rostro, e sonar ne la voce e ´ioª e ´mioª,
quandí era nel concetto e ënoií e ënostroí.

E cominciÚ: ´Per esser giusto e pio son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio;

e in terra lasciai la mia memoria
sÏ fatta, che le genti lÏ malvage commendan lei, ma non seguon la storiaª.

CosÏ un sol calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image.

Ondí io appresso: ´O perpet¸i fiori de líetterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,

solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente míha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno.

Ben so io che, se ín cielo altro reame la divina giustizia fa suo specchio,
che íl vostro non líapprende con velame.

Sapete come attento io míapparecchio ad ascoltar; sapete qual Ë quello
dubbio che míË digiun cotanto vecchioª.

Quasi falcone chíesce del cappello,
move la testa e con líali si plaude, voglia mostrando e faccendosi bello,

vidí io farsi quel segno, che di laude de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi l‡ s˘ gaude.

Poi cominciÚ: ´Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,

non potÈ suo valor sÏ fare impresso in tutto líuniverso, che íl suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.

E ciÚ fa certo che íl primo superbo, che fu la somma díogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;

e quinci appar chíogne minor natura
Ë corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sÈ con sÈ misura.

Dunque vostra veduta, che convene
esser alcun deí raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,

non pÚ da sua natura esser possente
tanto, che suo principio discerna
molto di l‡ da quel che líË parvente.

PerÚ ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo, comí occhio per lo mare, entro síinterna;

che, ben che da la proda veggia il fondo, in pelago nol vede; e nondimeno
Ëli, ma cela lui líesser profondo.

Lume non Ë, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi Ë tenËbra od ombra de la carne o suo veleno.

Assai tíË mo aperta la latebra
che tíascondeva la giustizia viva, di che facei question cotanto crebra;

chÈ tu dicevi: ìUn uom nasce a la riva de líIndo, e quivi non Ë chi ragioni
di Cristo nÈ chi legga nÈ chi scriva;

e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.

Muore non battezzato e sanza fede:
oví Ë questa giustizia che íl condanna? oví Ë la colpa sua, se ei non crede?î.

Or tu chi seí, che vuoí sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta díuna spanna?

Certo a colui che meco síassottiglia, se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.

Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volont‡, chíË da sÈ buona, da sÈ, chíË sommo ben, mai non si mosse.

Cotanto Ë giusto quanto a lei consuona: nullo creato bene a sÈ la tira,
ma essa, radÔando, lui cagionaª.

Quale sovresso il nido si rigira
poi cíha pasciuti la cicogna i figli, e come quel chíË pasto la rimira;

cotal si fece, e sÏ lev‰i i cigli, la benedetta imagine, che líali
movea sospinte da tanti consigli.

Roteando cantava, e dicea: ´Quali
son le mie note a te, che non le íntendi, tal Ë il giudicio etterno a voi mortaliª.

Poi si quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno che fÈ i Romani al mondo reverendi,

esso ricominciÚ: ´A questo regno
non salÏ mai chi non credette ín Cristo, nÈ pria nÈ poi chíel si chiavasse al legno.

Ma vedi: molti gridan ìCristo, Cristo!î, che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;

e tai Cristian danner‡ líEtÔÚpe, quando si partiranno i due collegi,
líuno in etterno ricco e líaltro inÚpe.

Che poran dir li Perse aí vostri regi, come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

LÏ si vedr‡, tra líopere díAlberto, quella che tosto mover‡ la penna,
per che íl regno di Praga fia diserto.

LÏ si vedr‡ il duol che sovra Senna induce, falseggiando la moneta,
quel che morr‡ di colpo di cotenna.

LÏ si vedr‡ la superbia chíasseta, che fa lo Scotto e líInghilese folle,
sÏ che non puÚ soffrir dentro a sua meta.

Vedrassi la lussuria e íl viver molle di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe nÈ volle.

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
segnata con un i la sua bontate,
quando íl contrario segner‡ un emme.

Vedrassi líavarizia e la viltate
di quei che guarda líisola del foco, ove Anchise finÏ la lunga etate;

e a dare ad intender quanto Ë poco,
la sua scrittura fian lettere mozze, che noteranno molto in parvo loco.

E parranno a ciascun líopere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia nazione e due corone han fatte bozze.

E quel di Portogallo e di Norvegia
lÏ si conosceranno, e quel di Rascia che male ha visto il conio di Vinegia.

Oh beata Ungheria, se non si lascia
pi˘ malmenare! e beata Navarra,
se síarmasse del monte che la fascia!

E creder deí ciascun che gi‡, per arra di questo, NiccosÔa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,

che dal fianco de líaltre non si scostaª.

Paradiso ∑ Canto XX

Quando colui che tutto íl mondo alluma de líemisperio nostro sÏ discende,
che íl giorno díogne parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima síaccende, subitamente si rif‡ parvente
per molte luci, in che una risplende;

e questo atto del ciel mi venne a mente, come íl segno del mondo e deí suoi duci nel benedetto rostro fu tacente;

perÚ che tutte quelle vive luci,
vie pi˘ lucendo, cominciaron canti da mia memoria labili e caduci.

O dolce amor che di riso tíammanti,
quanto parevi ardente in queí flailli, chíavieno spirto sol di pensier santi!

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ondí io vidi ingemmato il sesto lume puoser silenzio a li angelici squilli,

udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro gi˘ di pietra in pietra, mostrando líubert‡ del suo cacume.

E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sÏ comí al pertugio de la sampogna vento che penËtra,

cosÏ, rimosso díaspettare indugio,
quel mormorar de líaguglia salissi su per lo collo, come fosse bugio.

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole, quali aspettava il core oví io le scrissi.

´La parte in me che vede e pate il sole ne líaguglie mortaliª, incominciommi,
´or fisamente riguardar si vole,

perchÈ díi fuochi ondí io figura fommi, quelli onde líocchio in testa mi scintilla, eí di tutti lor gradi son li sommi.

Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che líarca traslatÚ di villa in villa:

ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio, per lo remunerar chíË altrettanto.

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, colui che pi˘ al becco mi síaccosta,
la vedovella consolÚ del figlio:

ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per líesperÔenza di questa dolce vita e de líopposta.

E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per líarco superno, morte indugiÚ per vera penitenza:

ora conosce che íl giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco fa crastino l‡ gi˘ de líodÔerno.

Líaltro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fÈ mal frutto, per cedere al pastor si fece greco:

ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li Ë nocivo, avvegna che sia íl mondo indi distrutto.

E quel che vedi ne líarco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora che piagne Carlo e Federigo vivo:

ora conosce come síinnamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante del suo fulgore il fa vedere ancora.

Chi crederebbe gi˘ nel mondo errante che RifÎo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?

Ora conosce assai di quel che íl mondo veder non puÚ de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondoª.

Quale allodetta che ín aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta
de líultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembiÚ líimago de la ímprenta de líetterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ellí Ë diventa.

E avvegna chíio fossi al dubbiar mio lÏ quasi vetro a lo color chíel veste, tempo aspettar tacendo non patio,

ma de la bocca, ´Che cose son queste?ª, mi pinse con la forza del suo peso:
per chíio di coruscar vidi gran feste.

Poi appresso, con líocchio pi˘ acceso, lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso:

´Io veggio che tu credi queste cose
perchí io le dico, ma non vedi come; sÏ che, se son credute, sono ascose.

Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non puÚ se altri non la prome.

Regnum celorum vÔolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate:

non a guisa che líomo a líom sobranza, ma vince lei perchÈ vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza.

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perchÈ ne vedi
la regÔon de li angeli dipinta.

Díi corpi suoi non uscir, come credi, Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel díi passuri e quel díi passi piedi.

ChÈ líuna de lo ínferno, uí non si riede gi‡ mai a buon voler, tornÚ a líossa; e ciÚ di viva spene fu mercede:

di viva spene, che mise la possa
neí prieghi fatti a Dio per suscitarla, sÏ che potesse sua voglia esser mossa.

Líanima glorÔosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco, credette in lui che potÎa aiutarla;

e credendo síaccese in tanto foco
di vero amor, chía la morte seconda fu degna di venire a questo gioco.

Líaltra, per grazia che da sÏ profonda fontana stilla, che mai creatura
non pinse líocchio infino a la prima onda,

tutto suo amor l‡ gi˘ pose a drittura: per che, di grazia in grazia, Dio li aperse líocchio a la nostra redenzion futura;

ondí ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo pi˘ del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.

Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar pi˘ díun millesmo.

O predestinazion, quanto remota
Ë la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!

E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: chÈ noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti;

ed Ënne dolce cosÏ fatto scemo,
perchÈ il ben nostro in questo ben síaffina, che quel che vole Iddio, e noi volemoª.

CosÏ da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista, data mi fu soave medicina.

E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che pi˘ di piacer lo canto acquista,

sÏ, mentre chíeí parlÚ, sÏ mi ricorda chíio vidi le due luci benedette,
pur come batter díocchi si concorda,

con le parole mover le fiammette.

Paradiso ∑ Canto XXI

Gi‡ eran li occhi miei rifissi al volto de la mia donna, e líanimo con essi,
e da ogne altro intento síera tolto.

E quella non ridea; ma ´Síio ridessiª, mi cominciÚ, ´tu ti faresti quale
fu SemelË quando di cener fessi:

chÈ la bellezza mia, che per le scale de líetterno palazzo pi˘ síaccende,
comí hai veduto, quanto pi˘ si sale,

se non si temperasse, tanto splende,
che íl tuo mortal podere, al suo fulgore, sarebbe fronda che trono scoscende.

Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto íl petto del Leone ardente raggia mo misto gi˘ del suo valore.

Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, e fa di quelli specchi a la figura
che ín questo specchio ti sar‡ parventeª.

Qual savesse qual era la pastura
del viso mio ne líaspetto beato
quandí io mi trasmutai ad altra cura,

conoscerebbe quanto míera a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
contrapesando líun con líaltro lato.

Dentro al cristallo che íl vocabol porta, cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,

di color díoro in che raggio traluce vidí io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.

Vidi anche per li gradi scender giuso tanti splendor, chíio pensai chíogne lume che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume;

poi altre vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon sÈ onde son mosse,
e altre roteando fan soggiorno;

tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che ínsieme venne, sÏ come in certo grado si percosse.

E quel che presso pi˘ ci si ritenne, si fÈ sÏ chiaro, chíio dicea pensando: ëIo veggio ben líamor che tu míaccenne.

Ma quella ondí io aspetto il come e íl quando del dire e del tacer, si sta; ondí io,
contra íl disio, fo ben chíio non dimandoí.

Per chíella, che vedÎa il tacer mio nel veder di colui che tutto vede,
mi disse: ´Solvi il tuo caldo disioª.

E io incominciai: ´La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta; ma per colei che íl chieder mi concede,

vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota la cagion che sÏ presso mi tíha posta;

e dÏ perchÈ si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che gi˘ per líaltre suona sÏ divotaª.

´Tu hai líudir mortal sÏ come il visoª, rispuose a me; ´onde qui non si canta
per quel che BÎatrice non ha riso.

Gi˘ per li gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti festa
col dire e con la luce che mi ammanta;

nÈ pi˘ amor mi fece esser pi˘ presta, chÈ pi˘ e tanto amor quinci s˘ ferve, sÏ come il fiammeggiar ti manifesta.

Ma líalta carit‡, che ci fa serve
pronte al consiglio che íl mondo governa, sorteggia qui sÏ come tu osserveª.

´Io veggio benª, dissí io, ´sacra lucerna, come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna;

ma questo Ë quel chía cerner mi par forte, perchÈ predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorteª.

NÈ venni prima a líultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro, girando sÈ come veloce mola;

poi rispuose líamor che víera dentro: ´Luce divina sopra me síappunta,
penetrando per questa in chíio míinventro,

la cui virt˘, col mio veder congiunta, mi leva sopra me tanto, chíií veggio
la somma essenza de la quale Ë munta.

Quinci vien líallegrezza ondí io fiammeggio; per chía la vista mia, quantí ella Ë chiara, la chiarit‡ de la fiamma pareggio.

Ma quellí alma nel ciel che pi˘ si schiara, quel serafin che ín Dio pi˘ líocchio ha fisso, a la dimanda tua non satisfara,

perÚ che sÏ síinnoltra ne lo abisso de líetterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista Ë scisso.

E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sÏ che non presumma a tanto segno pi˘ mover li piedi.

La mente, che qui luce, in terra fumma; onde riguarda come puÚ l‡ gi˘e
quel che non pote perchÈ íl ciel líassummaª.

SÏ mi prescrisser le parole sue,
chíio lasciai la quistione e mi ritrassi a dimandarla umilmente chi fue.

´Tra í due liti díItalia surgon sassi, e non molto distanti a la tua patria,
tanto che í troni assai suonan pi˘ bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria, di sotto al quale Ë consecrato un ermo, che suole esser disposto a sola latriaª.

CosÏ ricominciommi il terzo sermo;
e poi, contin¸ando, disse: ´Quivi al servigio di Dio mi feí sÏ fermo,

che pur con cibi di liquor díulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento neí pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli fertilemente; e ora Ë fatto vano,
sÏ che tosto convien che si riveli.

In quel loco fuí io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fuí ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.

Poca vita mortal míera rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello, che pur di male in peggio si travasa.

Venne Cef‡s e venne il gran vasello de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

Cuopron díi manti loro i palafreni,
sÏ che due bestie van sottí una pelle: oh pazÔenza che tanto sostieni!ª.

A questa voce vidí io pi˘ fiammelle di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea pi˘ belle.

Dintorno a questa vennero e fermarsi, e fero un grido di sÏ alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;

nÈ io lo íntesi, sÏ mi vinse il tuono.

Paradiso ∑ Canto XXII

Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre col‡ dove pi˘ si confida;

e quella, come madre che soccorre
s˘bito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che íl suol ben disporre,

mi disse: ´Non sai tu che tu seí in cielo? e non sai tu che íl cielo Ë tutto santo, e ciÚ che ci si fa vien da buon zelo?

Come tíavrebbe trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
poscia che íl grido tíha mosso cotanto;

nel qual, se ínteso avessi i prieghi suoi, gi‡ ti sarebbe nota la vendetta
che tu vedrai innanzi che tu muoi.

La spada di qua s˘ non taglia in fretta nÈ tardo, maí chíal parer di colui
che disÔando o temendo líaspetta.

Ma rivolgiti omai inverso altrui;
chíassai illustri spiriti vedrai,
se comí io dico líaspetto reduiª.

Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che ínsieme
pi˘ síabbellivan con mut¸i rai.

Io stava come quei che ín sÈ repreme la punta del disio, e non síattenta
di domandar, sÏ del troppo si teme;

e la maggiore e la pi˘ luculenta
di quelle margherite innanzi fessi, per far di sÈ la mia voglia contenta.

Poi dentro a lei udií: ´Se tu vedessi comí io la carit‡ che tra noi arde,
li tuoi concetti sarebbero espressi.

Ma perchÈ tu, aspettando, non tarde
a líalto fine, io ti farÚ risposta pur al pensier, da che sÏ ti riguarde.

Quel monte a cui Cassino Ë ne la costa fu frequentato gi‡ in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che s˘ vi portai prima lo nome di colui che ín terra addusse
la verit‡ che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,
chíio ritrassi le ville circunstanti da líempio cÛlto che íl mondo sedusse.

Questi altri fuochi tutti contemplanti uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e í frutti santi.

Qui Ë Maccario, qui Ë Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldoª.

E io a lui: ´Líaffetto che dimostri meco parlando, e la buona sembianza
chíio veggio e noto in tutti li ardor vostri,

cosÏ míha dilatata mia fidanza,
come íl sol fa la rosa quando aperta tanto divien quantí ellí ha di possanza.

PerÚ ti priego, e tu, padre, míaccerta síio posso prender tanta grazia, chíio ti veggia con imagine scovertaª.

Ondí elli: ´Frate, il tuo alto disio síadempier‡ in su líultima spera,
ove síadempion tutti li altri e íl mio.

Ivi Ë perfetta, matura e intera
ciascuna disÔanza; in quella sola
Ë ogne parte l‡ ove semprí era,

perchÈ non Ë in loco e non síimpola; e nostra scala infino ad essa varca,
onde cosÏ dal viso ti síinvola.

Infin l‡ s˘ la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
quando li apparve díangeli sÏ carca.

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa Ë per danno de le carte.

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.

Ma grave usura tanto non si tolle
contra íl piacer di Dio, quanto quel frutto che fa il cor deí monaci sÏ folle;

chÈ quantunque la Chiesa guarda, tutto Ë de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti nÈ díaltro pi˘ brutto.

La carne díi mortali Ë tanto blanda, che gi˘ non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.

Pier cominciÚ sanzí oro e sanzí argento, e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;

e se guardi íl principio di ciascuno, poscia riguardi l‡ doví Ë trascorso, tu vederai del bianco fatto bruno.

Veramente Iordan vÚlto retrorso
pi˘ fu, e íl mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder che qui íl soccorsoª.

CosÏ mi disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e íl collegio si strinse; poi, come turbo, in s˘ tutto síavvolse.

La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala, sÏ sua virt˘ la mia natura vinse;

nÈ mai qua gi˘ dove si monta e cala naturalmente, fu sÏ ratto moto
chíagguagliar si potesse a la mia ala.

Síio torni mai, lettore, a quel divoto trÔunfo per lo quale io piango spesso
le mie peccata e íl petto mi percuoto,

tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quantí io vidi íl segno che segue il Tauro e fui dentro da esso.

O glorÔose stelle, o lume pregno
di gran virt˘, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e síascondeva vosco
quelli chíË padre díogne mortal vita, quandí io sentií di prima líaere tosco;

e poi, quando mi fu grazia largita
díentrar ne líalta rota che vi gira, la vostra regÔon mi fu sortita.

A voi divotamente ora sospira
líanima mia, per acquistar virtute al passo forte che a sÈ la tira.

´Tu seí sÏ presso a líultima saluteª, cominciÚ BÎatrice, ´che tu dei
aver le luci tue chiare e acute;

e perÚ, prima che tu pi˘ tíinlei,
rimira in gi˘, e vedi quanto mondo sotto li piedi gi‡ esser ti fei;

sÏ che íl tuo cor, quantunque puÚ, giocondo síappresenti a la turba trÔunfante
che lieta vien per questo etera tondoª.

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo tal, chíio sorrisi del suo vil sembiante;

e quel consiglio per migliore approbo che líha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo.

Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quellí ombra che mi fu cagione per che gi‡ la credetti rara e densa.

Líaspetto del tuo nato, IperÔone,
quivi sostenni, e vidi comí si move circa e vicino a lui Maia e DÔone.

Quindi míapparve il temperar di Giove tra íl padre e íl figlio; e quindi mi fu chiaro il varÔar che fanno di lor dove;

e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo.

Líaiuola che ci fa tanto feroci,
volgendomí io con li etterni Gemelli, tutta míapparve daí colli a le foci;

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

Paradiso ∑ Canto XXIII

Come líaugello, intra líamate fronde, posato al nido deí suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disÔati
e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati,

previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che líalba nasca;

cosÏ la donna mÔa stava eretta
e attenta, rivolta inverí la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta:

sÏ che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual Ë quei che disÔando
altro vorria, e sperando síappaga.

Ma poco fu tra uno e altro quando,
del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir pi˘ e pi˘ rischiarando;

e BÎatrice disse: ´Ecco le schiere
del trÔunfo di Cristo e tutto íl frutto ricolto del girar di queste spere!ª.

Pariemi che íl suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia sÏ pieni,
che passarmen convien sanza costrutto.

Quale neí plenilunÔi sereni
TrivÔa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,

vidí ií sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante líaccendea, come fa íl nostro le viste superne;

e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.

Oh BÎatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: ´Quel che ti sobranza Ë virt˘ da cui nulla si ripara.

Quivi Ë la sapÔenza e la possanza
chíaprÏ le strade tra íl cielo e la terra, onde fu gi‡ sÏ lunga disÔanzaª.

Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sÏ che non vi cape,
e fuor di sua natura in gi˘ síatterra,

la mente mia cosÏ, tra quelle dape
fatta pi˘ grande, di sÈ stessa uscÏo, e che si fesse rimembrar non sape.

´Apri li occhi e riguarda qual son io; tu hai vedute cose, che possente
seí fatto a sostener lo riso mioª.

Io era come quei che si risente
di visÔone oblita e che síingegna indarno di ridurlasi a la mente,

quandí io udií questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue
del libro che íl preterito rassegna.

Se mo sonasser tutte quelle lingue
che PolimnÔa con le suore fero
del latte lor dolcissimo pi˘ pingue,

per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero;

e cosÏ, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.

Ma chi pensasse il ponderoso tema
e líomero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sottí esso trema:

non Ë pareggio da picciola barca
quel che fendendo va líardita prora, nÈ da nocchier chía sÈ medesmo parca.

´PerchÈ la faccia mia sÏ tíinnamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino
che sotto i raggi di Cristo síinfiora?

Quivi Ë la rosa in che íl verbo divino carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon camminoª.

CosÏ Beatrice; e io, che aí suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei
a la battaglia deí debili cigli.

Come a raggio di sol, che puro mei
per fratta nube, gi‡ prato di fiori vider, coverti díombra, li occhi miei;

vidí io cosÏ pi˘ turbe di splendori, folgorate di s˘ da raggi ardenti,
sanza veder principio di folgÛri.

O benigna vert˘ che sÏ li ímprenti, s˘ tíessaltasti, per largirmi loco
a li occhi lÏ che non tíeran possenti.

Il nome del bel fior chíio sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse
líanimo ad avvisar lo maggior foco;

e come ambo le luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella che l‡ s˘ vince come qua gi˘ vinse,

per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia pi˘ dolce suona
qua gi˘ e pi˘ a sÈ líanima tira, parrebbe nube che squarciata tona,

comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel pi˘ chiaro síinzaffira.

´Io sono amore angelico, che giro
líalta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro;

e girerommi, donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia pi˘ la spera suprema perchÈ lÏ entreª.

CosÏ la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria.

Lo real manto di tutti i volumi
del mondo, che pi˘ ferve e pi˘ síavviva ne líalito di Dio e nei costumi,

avea sopra di noi líinterna riva
tanto distante, che la sua parvenza, l‡ doví io era, ancor non appariva:

perÚ non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma
che si levÚ appresso sua semenza.

E come fantolin che ínverí la mamma tende le braccia, poi che íl latte prese, per líanimo che ínfin di fuor síinfiamma;

ciascun di quei candori in s˘ si stese con la sua cima, sÏ che líalto affetto chíelli avieno a Maria mi fu palese.

Indi rimaser lÏ nel mio cospetto,
ëRegina celií cantando sÏ dolce, che mai da me non si partÏ íl diletto.

Oh quanta Ë líubert‡ che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro
a seminar qua gi˘ buone bobolce!

Quivi si vive e gode del tesoro
che síacquistÚ piangendo ne lo essilio di BabillÚn, ove si lasciÚ líoro.

Quivi trÔunfa, sotto líalto Filio
di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con líantico e col novo concilio,

colui che tien le chiavi di tal gloria.

Paradiso ∑ Canto XXIV

´O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba sÏ, che la vostra voglia Ë sempre piena,

se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa, prima che morte tempo li prescriba,

ponete mente a líaffezione immensa
e roratelo alquanto: voi bevete
sempre del fonte onde vien quel chíei pensaª.

CosÏ Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, a volte, a guisa di comete.

E come cerchi in tempra díorÔuoli
si giran sÏ, che íl primo a chi pon mente quÔeto pare, e líultimo che voli;

cosÏ quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente.

Di quella chíio notai di pi˘ carezza vidí Ôo uscire un foco sÏ felice,
che nullo vi lasciÚ di pi˘ chiarezza;

e tre fÔate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.

PerÚ salta la penna e non lo scrivo: chÈ líimagine nostra a cotai pieghe,
non che íl parlare, Ë troppo color vivo.

´O santa suora mia che sÏ ne prieghe divota, per lo tuo ardente affetto
da quella bella spera mi dislegheª.

Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzÚ lo spiro,
che favellÚ cosÏ comí ií ho detto.

Ed ella: ´O luce etterna del gran viro a cui Nostro Segnor lasciÚ le chiavi,
chíei portÚ gi˘, di questo gaudio miro,

tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi.

Síelli ama bene e bene spera e crede, non tíË occulto, perchÈ íl viso hai quivi doví ogne cosa dipinta si vede;

ma perchÈ questo regno ha fatto civi per la verace fede, a glorÔarla,
di lei parlare Ë ben chía lui arriviª.

SÏ come il baccialier síarma e non parla fin che íl maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla,

cosÏ míarmava io díogne ragione
mentre chíella dicea, per esser presto a tal querente e a tal professione.

´DÏ, buon Cristiano, fatti manifesto: fede che Ë?ª. Ondí io levai la fronte in quella luce onde spirava questo;

poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte sembianze femmi perchí Ôo spandessi
líacqua di fuor del mio interno fonte.

´La Grazia che mi d‡ chíio mi confessiª, cominciaí io, ´da líalto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressiª.

E seguitai: ´Come íl verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate che mise teco Roma nel buon filo,

fede Ë sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditateª.

Allora udií: ´Dirittamente senti,
se bene intendi perchÈ la ripuose
tra le sustanze, e poi tra li argomentiª.

E io appresso: ´Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza, a li occhi di l‡ gi˘ son sÏ ascose,

che líesser loro víË in sola credenza, sopra la qual si fonda líalta spene;
e perÚ di sustanza prende intenza.

E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanzí avere altra vista: perÚ intenza díargomento teneª.

Allora udií: ´Se quantunque síacquista gi˘ per dottrina, fosse cosÏ ínteso,
non lÏ avria loco ingegno di sofistaª.

CosÏ spirÚ di quello amore acceso;
indi soggiunse: ´Assai bene Ë trascorsa díesta moneta gi‡ la lega e íl peso;

ma dimmi se tu líhai ne la tua borsaª. Ondí io: ´SÏ ho, sÏ lucida e sÏ tonda, che nel suo conio nulla mi síinforsaª.

Appresso uscÏ de la luce profonda
che lÏ splendeva: ´Questa cara gioia sopra la quale ogne virt˘ si fonda,

onde ti venne?ª. E io: ´La larga ploia de lo Spirito Santo, chíË diffusa
in su le vecchie e ín su le nuove cuoia,

Ë silogismo che la míha conchiusa
acutamente sÏ, che ínverso díella ogne dimostrazion mi pare ottusaª.

Io udií poi: ´Líantica e la novella proposizion che cosÏ ti conchiude,
perchÈ líhai tu per divina favella?ª.

E io: ´La prova che íl ver mi dischiude, son líopere seguite, a che natura
non scalda ferro mai nÈ batte incudeª.

Risposto fummi: ´DÏ, chi tíassicura che quellí opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giuraª.

´Se íl mondo si rivolse al cristianesmoª, dissí io, ´sanza miracoli, questí uno Ë tal, che li altri non sono il centesmo:

chÈ tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta che fu gi‡ vite e ora Ë fatta prunoª.

Finito questo, líalta corte santa
risonÚ per le spere un ëDio laudamoí ne la melode che l‡ s˘ si canta.

E quel baron che sÏ di ramo in ramo, essaminando, gi‡ tratto míavea,
che a líultime fronde appressavamo,

ricominciÚ: ´La Grazia, che donnea
con la tua mente, la bocca tíaperse infino a qui come aprir si dovea,

sÏ chíio approvo ciÚ che fuori emerse; ma or convien espremer quel che credi,
e onde a la credenza tua síofferseª.

´O santo padre, e spirito che vedi
ciÚ che credesti sÏ, che tu vincesti verí lo sepulcro pi˘ giovani piediª,

cominciaí io, ´tu vuoí chíio manifesti la forma qui del pronto creder mio,
e anche la cagion di lui chiedesti.

E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto íl ciel move, non moto, con amore e con disio;

e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verit‡ che quinci piove

per MoÔsË, per profeti e per salmi, per líEvangelio e per voi che scriveste poi che líardente Spirto vi fÈ almi;

e credo in tre persone etterne, e queste credo una essenza sÏ una e sÏ trina,
che soffera congiunto ësonoí ed ëesteí.

De la profonda condizion divina
chíio tocco mo, la mente mi sigilla pi˘ volte líevangelica dottrina.

Questí Ë íl principio, questí Ë la favilla che si dilata in fiamma poi vivace,
e come stella in cielo in me scintillaª.

Come íl segnor chíascolta quel che i piace, da indi abbraccia il servo, gratulando
per la novella, tosto chíel si tace;

cosÏ, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sÏ comí io tacqui, líappostolico lume al cui comando

io avea detto: sÏ nel dir li piacqui!

Paradiso ∑ Canto XXV

Se mai continga che íl poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra, sÏ che míha fatto per molti anni macro,

vinca la crudelt‡ che fuor mi serra del bello ovile oví io dormií agnello, nimico ai lupi che li danno guerra;

con altra voce omai, con altro vello
ritornerÚ poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderÚ íl cappello;

perÚ che ne la fede, che fa conte
líanime a Dio, quivi intraí io, e poi Pietro per lei sÏ mi girÚ la fronte.

Indi si mosse un lume verso noi
di quella spera ondí uscÏ la primizia che lasciÚ Cristo díi vicari suoi;

e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: ´Mira, mira: ecco il barone per cui l‡ gi˘ si vicita Galiziaª.

SÏ come quando il colombo si pone
presso al compagno, líuno a líaltro pande, girando e mormorando, líaffezione;

cosÏ vidí Ôo líun da líaltro grande principe glorÔoso essere accolto,
laudando il cibo che l‡ s˘ li prande.

Ma poi che íl gratular si fu assolto, tacito coram me ciascun síaffisse,
ignito sÏ che vincÎa íl mio volto.

Ridendo allora BÎatrice disse:
´Inclita vita per cui la larghezza de la nostra basilica si scrisse,

fa risonar la spene in questa altezza: tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Ies˘ ai tre fÈ pi˘ carezzaª.

´Leva la testa e fa che tíassicuri: che ciÚ che vien qua s˘ del mortal mondo, convien chíai nostri raggi si maturiª.

Questo conforto del foco secondo
mi venne; ondí io lev‰i li occhi aí monti che li íncurvaron pria col troppo pondo.

´Poi che per grazia vuol che tu tíaffronti lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne líaula pi˘ secreta coí suoi conti,

sÏ che, veduto il ver di questa corte, la spene, che l‡ gi˘ bene innamora,
in te e in altrui di ciÚ conforte,

dií quel chíellí Ë, dií come se ne ínfiora la mente tua, e dÏ onde a te venneª.
CosÏ seguÏ íl secondo lume ancora.

E quella pÔa che guidÚ le penne
de le mie ali a cosÏ alto volo,
a la risposta cosÏ mi prevenne:

´La Chiesa militante alcun figliuolo non ha con pi˘ speranza, comí Ë scritto nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:

perÚ li Ë conceduto che díEgitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che íl militar li sia prescritto.

Li altri due punti, che non per sapere son dimandati, ma perchí ei rapporti
quanto questa virt˘ tíË in piacere,

a lui lascí io, chÈ non li saran forti nÈ di iattanza; ed elli a ciÚ risponda, e la grazia di Dio ciÚ li comportiª.

Come discente chía dottor seconda
pronto e libente in quel chíelli Ë esperto, perchÈ la sua bont‡ si disasconda,

´Speneª, dissí io, ´Ë uno attender certo de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.

Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillÚ nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce.

ëSperino in teí, ne la sua tÎodia
dice, ëcolor che sanno il nome tuoí: e chi nol sa, síelli ha la fede mia?

Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sÏ chíio son pieno, e in altrui vostra pioggia repluoª.

Mentrí io diceva, dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo
s˘bito e spesso a guisa di baleno.

Indi spirÚ: ´Líamore ondí Ôo avvampo ancor verí la virt˘ che mi seguette
infin la palma e a líuscir del campo,

vuol chíio respiri a te che ti dilette di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti ímprometteª.

E io: ´Le nove e le scritture antiche pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de líanime che Dio síha fatte amiche.

Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta: e la sua terra Ë questa dolce vita;

e íl tuo fratello assai vie pi˘ digesta, l‡ dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifestaª.

E prima, appresso al fin díeste parole, ëSperent in teí di soprí a noi síudÏ; a che rispuoser tutte le carole.

Poscia tra esse un lume si schiarÏ
sÏ che, se íl Cancro avesse un tal cristallo, líinverno avrebbe un mese díun sol dÏ.

E come surge e va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
a la novizia, non per alcun fallo,

cosÏ vidí io lo schiarato splendore venire aí due che si volgieno a nota
qual conveniesi al loro ardente amore.

Misesi lÏ nel canto e ne la rota;
e la mia donna in lor tenea líaspetto, pur come sposa tacita e immota.

´Questi Ë colui che giacque sopra íl petto del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio elettoª.

La donna mia cosÏ; nÈ perÚ pi˘e
mosser la vista sua di stare attenta poscia che prima le parole sue.

Qual Ë colui chíadocchia e síargomenta di vedere eclissar lo sole un poco,
che, per veder, non vedente diventa;

tal mi fecí Ôo a quellí ultimo foco mentre che detto fu: ´PerchÈ tíabbagli per veder cosa che qui non ha loco?

In terra Ë terra il mio corpo, e saragli tanto con li altri, che íl numero nostro con líetterno proposito síagguagli.

Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostroª.

A questa voce líinfiammato giro
si quÔetÚ con esso il dolce mischio che si facea nel suon del trino spiro,

sÏ come, per cessar fatica o rischio, li remi, pria ne líacqua ripercossi,
tutti si posano al sonar díun fischio.

Ahi quanto ne la mente mi commossi,
quando mi volsi per veder Beatrice, per non poter veder, benchÈ io fossi

presso di lei, e nel mondo felice!

Paradiso ∑ Canto XXVI

Mentrí io dubbiava per lo viso spento, de la fulgida fiamma che lo spense
uscÏ un spiro che mi fece attento,

dicendo: ´Intanto che tu ti risense
de la vista che haÔ in me consunta, ben Ë che ragionando la compense.

Comincia dunque; e dÏ ove síappunta líanima tua, e fa ragion che sia
la vista in te smarrita e non defunta:

perchÈ la donna che per questa dia
regÔon ti conduce, ha ne lo sguardo