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Di retro a tutti dicean: ´Prima fue
morta la gente a cui il mar síaperse, che vedesse Iordan le rede sue.

E quella che líaffanno non sofferse
fino a la fine col figlio díAnchise, sÈ stessa a vita sanza gloria offerseª.

Poi quando fuor da noi tanto divise
quellí ombre, che veder pi˘ non potiersi, novo pensiero dentro a me si mise,

del qual pi˘ altri nacquero e diversi; e tanto díuno in altro vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,

e íl pensamento in sogno trasmutai.

Purgatorio ∑ Canto XIX

Ne líora che non puÚ íl calor dÔurno intepidar pi˘ íl freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno

óquando i geomanti lor Maggior Fortuna veggiono in orÔente, innanzi a líalba, surger per via che poco le sta brunaó,

mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piË distorta, con le man monche, e di colore scialba.

Io la mirava; e come íl sol conforta le fredde membra che la notte aggrava,
cosÏ lo sguardo mio le facea scorta

la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco díora, e lo smarrito volto,
comí amor vuol, cosÏ le colorava.

Poi chíellí avea íl parlar cosÏ disciolto, cominciava a cantar sÏ, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.

´Io sonª, cantava, ´io son dolce serena, che í marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!

Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco síausa,
rado sen parte; sÏ tutto líappago!ª.

Ancor non era sua bocca richiusa,
quandí una donna apparve santa e presta lunghesso me per far colei confusa.

´O Virgilio, Virgilio, chi Ë questa?ª, fieramente dicea; ed el venÏa
con li occhi fitti pur in quella onesta.

Líaltra prendea, e dinanzi líapria
fendendo i drappi, e mostravami íl ventre; quel mi svegliÚ col puzzo che níuscia.

Io mossi li occhi, e íl buon maestro: ´Almen tre voci tího messe!ª, dicea, ´Surgi e vieni; troviam líaperta per la qual tu entreª.

S˘ mi levai, e tutti eran gi‡ pieni de líalto dÏ i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni.

Seguendo lui, portava la mia fronte
come colui che líha di pensier carca, che fa di sÈ un mezzo arco di ponte;

quandí io udií ´Venite; qui si varcaª parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca.

Con líali aperte, che parean di cigno, volseci in s˘ colui che sÏ parlonne
tra due pareti del duro macigno.

Mosse le penne poi e ventilonne,
ëQui lugentí affermando esser beati, chíavran di consolar líanime donne.

´Che hai che pur inverí la terra guati?ª, la guida mia incominciÚ a dirmi,
poco amendue da líangel sormontati.

E io: ´Con tanta sospeccion fa irmi
novella visÔon chía sÈ mi piega, sÏ chíio non posso dal pensar partirmiª.

´Vedestiª, disse, ´quellíantica strega che sola sovrí a noi omai si piagne;
vedesti come líuom da lei si slega.

Bastiti, e batti a terra le calcagne; li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magneª.

Quale íl falcon, che prima aí piÈ si mira, indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che l‡ il tira,

tal mi fecí io; e tal, quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso,
níandai infin dove íl cerchiar si prende.

Comí io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.

ëAdhaesit pavimento anima meaí
sentia dir lor con sÏ alti sospiri, che la parola a pena síintendea.

´O eletti di Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri, drizzate noi verso li alti saliriª.

´Se voi venite dal giacer sicuri,
e volete trovar la via pi˘ tosto,
le vostre destre sien sempre di foriª.

CosÏ pregÚ íl poeta, e sÏ risposto poco dinanzi a noi ne fu; per chíio
nel parlare avvisai líaltro nascosto,

e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ondí elli míassentÏ con lieto cenno
ciÚ che chiedea la vista del disio.

Poi chíio potei di me fare a mio senno, trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,

dicendo: ´Spirto in cui pianger matura quel sanza íl quale a Dio tornar non pÚssi, sosta un poco per me tua maggior cura.

Chi fosti e perchÈ vÚlti avete i dossi al s˘, mi dÏ, e se vuoí chíio tíimpetri cosa di l‡ ondí io vivendo mossiª.

Ed elli a me: ´PerchÈ i nostri diretri rivolga il cielo a sÈ, saprai; ma prima scias quod ego fui successor Petri.

Intra SÔestri e Chiaveri síadima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.

Un mese e poco pi˘ provaí io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, che piuma sembran tutte líaltre some.

La mia conversÔone, omË!, fu tarda; ma, come fatto fui roman pastore,
cosÏ scopersi la vita bugiarda.

Vidi che lÏ non síacquetava il core, nÈ pi˘ salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me síaccese amore.

Fino a quel punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.

Quel chíavarizia fa, qui si dichiara in purgazion de líanime converse;
e nulla pena il monte ha pi˘ amara.

SÏ come líocchio nostro non síaderse in alto, fisso a le cose terrene,
cosÏ giustizia qui a terra il merse.

Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdÈsi, cosÏ giustizia qui stretti ne tene,

neí piedi e ne le man legati e presi; e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesiª.

Io míera inginocchiato e volea dire; ma comí io cominciai ed el síaccorse,
solo ascoltando, del mio reverire,

´Qual cagionª, disse, ´in gi˘ cosÏ ti torse?ª. E io a lui: ´Per vostra dignitate
mia coscÔenza dritto mi rimorseª.

´Drizza le gambe, lËvati s˘, frate!ª, rispuose; ´non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.

Se mai quel santo evangelico suono
che dice ëNeque nubentí intendesti, ben puoi veder perchí io cosÏ ragiono.

Vattene omai: non voí che pi˘ tíarresti; chÈ la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciÚ che tu dicesti.

Nepote ho io di l‡ cíha nome Alagia, buona da sÈ, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;

e questa sola di l‡ míË rimasaª.

Purgatorio ∑ Canto XX

Contra miglior voler voler mal pugna; onde contra íl piacer mio, per piacerli, trassi de líacqua non sazia la spugna.

Mossimi; e íl duca mio si mosse per li luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto aí merli;

chÈ la gente che fonde a goccia a goccia per li occhi il mal che tutto íl mondo occupa, da líaltra parte in fuor troppo síapproccia.

Maladetta sie tu, antica lupa,
che pi˘ che tutte líaltre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa!

O ciel, nel cui girar par che si creda le condizion di qua gi˘ trasmutarsi,
quando verr‡ per cui questa disceda?

Noi andavam con passi lenti e scarsi, e io attento a líombre, chíií sentia
pietosamente piangere e lagnarsi;

e per ventura udií ´Dolce Maria!ª
dinanzi a noi chiamar cosÏ nel pianto come fa donna che in parturir sia;

e seguitar: ´Povera fosti tanto,
quanto veder si puÚ per quello ospizio dove sponesti il tuo portato santoª.

Seguentemente intesi: ´O buon Fabrizio, con povert‡ volesti anzi virtute
che gran ricchezza posseder con vizioª.

Queste parole míeran sÏ piaciute,
chíio mi trassi oltre per aver contezza di quello spirto onde parean venute.

Esso parlava ancor de la larghezza
che fece NiccolÚ a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza.

´O anima che tanto ben favelle,
dimmi chi fostiª, dissi, ´e perchÈ sola tu queste degne lode rinovelle.

Non fia sanza mercÈ la tua parola,
síio ritorno a compiÈr lo cammin corto di quella vita chíal termine volaª.

Ed elli: ´Io ti dirÚ, non per conforto chíio attenda di l‡, ma perchÈ tanta grazia in te luce prima che sie morto.

Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia, sÏ che buon frutto rado se ne schianta.

Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.

Chiamato fui di l‡ Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente Ë Francia retta.

Figliuol fuí io díun beccaio di Parigi: quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor chíun renduto in panni bigi,

trovaími stretto ne le mani il freno del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sÏ díamici pieno,

chía la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale cominciar di costor le sacrate ossa.

Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna, poco valea, ma pur non facea male.

LÏ cominciÚ con forza e con menzogna la sua rapina; e poscia, per ammenda,
PontÏ e Normandia prese e Guascogna.

Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fÈ di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

Tempo veggí io, non molto dopo ancoi, che tragge un altro Carlo fuor di Francia, per far conoscer meglio e sÈ e í suoi.

Sanzí arme níesce e solo con la lancia con la qual giostrÚ Giuda, e quella ponta sÏ, chía Fiorenza fa scoppiar la pancia.

Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagner‡, per sÈ tanto pi˘ grave, quanto pi˘ lieve simil danno conta.

Líaltro, che gi‡ uscÏ preso di nave, veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de líaltre schiave.

O avarizia, che puoi tu pi˘ farne,
poscia cíhaí il mio sangue a te sÏ tratto, che non si cura de la propria carne?

PerchÈ men paia il mal futuro e íl fatto, veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo uníaltra volta esser deriso; veggio rinovellar líaceto e íl fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.

Veggio il novo Pilato sÏ crudele,
che ciÚ nol sazia, ma sanza decreto portar nel Tempio le cupide vele.

O Segnor mio, quando sarÚ io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce líira tua nel tuo secreto?

CiÚ chíio dicea di quellí unica sposa de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa,

tanto Ë risposto a tutte nostre prece quanto íl dÏ dura; ma comí el síannotta, contrario suon prendemo in quella vece.

Noi repetiam PigmalÔon allotta,
cui traditore e ladro e paricida
fece la voglia sua de líoro ghiotta;

e la miseria de líavaro Mida,
che seguÏ a la sua dimanda gorda,
per la qual sempre convien che si rida.

Del folle Ac‡n ciascun poi si ricorda, come furÚ le spoglie, sÏ che líira
di Ios¸Ë qui par chíancor lo morda.

Indi accusiam col marito Saffira;
lodiam i calci chíebbe ElÔodoro;
e in infamia tutto íl monte gira

PolinestÚr chíancise Polidoro;
ultimamente ci si grida: ìCrasso,
dilci, che íl sai: di che sapore Ë líoro?î.

Talor parla líuno alto e líaltro basso, secondo líaffezion chíad ir ci sprona
ora a maggiore e ora a minor passo:

perÚ al ben che íl dÏ ci si ragiona, dianzi non era io sol; ma qui da presso
non alzava la voce altra personaª.

Noi eravam partiti gi‡ da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder níera permesso,

quandí io sentií, come cosa che cada, tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui chía morte vada.

Certo non si scoteo sÏ forte Delo,
pria che Latona in lei facesse íl nido a parturir li due occhi del cielo.

Poi cominciÚ da tutte parti un grido tal, che íl maestro inverso me si feo,
dicendo: ´Non dubbiar, mentrí io ti guidoª.

ëGlorÔa in excelsisí tutti ëDeoí dicean, per quel chíio daí vicin compresi, onde intender lo grido si poteo.

Noí istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto, fin che íl tremar cessÚ ed el compiÈsi.

Poi ripigliammo nostro cammin santo,
guardando líombre che giacean per terra, tornate gi‡ in su líusato pianto.

Nulla ignoranza mai con tanta guerra
mi fÈ desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciÚ non erra,

quanta pareami allor, pensando, avere; nÈ per la fretta dimandare erí oso,
nÈ per me lÏ potea cosa vedere:

cosÏ míandava timido e pensoso.

Purgatorio ∑ Canto XXI

La sete natural che mai non sazia
se non con líacqua onde la femminetta samaritana domandÚ la grazia,

mi travagliava, e pungeami la fretta
per la ímpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta.

Ed ecco, sÏ come ne scrive Luca
che Cristo apparve aí due chíerano in via, gi‡ surto fuor de la sepulcral buca,

ci apparve uníombra, e dietro a noi venÏa, dal piË guardando la turba che giace;
nÈ ci addemmo di lei, sÏ parlÚ pria,

dicendo: ´O frati miei, Dio vi dea paceª. Noi ci volgemmo s˘biti, e Virgilio
rendÈli íl cenno chía ciÚ si conface.

Poi cominciÚ: ´Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne líetterno essilioª.

´Come!ª, dissí elli, e parte andavam forte: ´se voi siete ombre che Dio s˘ non degni, chi víha per la sua scala tanto scorte?ª.

E íl dottor mio: ´Se tu riguardi aí segni che questi porta e che líangel profila, ben vedrai che coi buon convien chíeí regni.

Ma perchÈ lei che dÏ e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila,

líanima sua, chíË tua e mia serocchia, venendo s˘, non potea venir sola,
perÚ chíal nostro modo non adocchia.

Ondí io fui tratto fuor de líampia gola díinferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto íl potr‡ menar mia scola.

Ma dimmi, se tu sai, perchÈ tai crolli diË dianzi íl monte, e perchÈ tutto ad una parve gridare infino aí suoi piË molliª.

SÏ mi diË, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna.

Quei cominciÚ: ´Cosa non Ë che sanza ordine senta la religÔone
de la montagna, o che sia fuor díusanza.

Libero Ë qui da ogne alterazione:
di quel che íl ciel da sÈ in sÈ riceve esser ci puote, e non díaltro, cagione.

Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina pi˘ s˘ cade
che la scaletta di tre gradi breve;

nuvole spesse non paion nÈ rade,
nÈ coruscar, nÈ figlia di Taumante, che di l‡ cangia sovente contrade;

secco vapor non surge pi˘ avante
chíal sommo díi tre gradi chíio parlai, doví ha íl vicario di Pietro le piante.

Trema forse pi˘ gi˘ poco o assai;
ma per vento che ín terra si nasconda, non so come, qua s˘ non tremÚ mai.

Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sÏ che surga o che si mova per salir s˘; e tal grido seconda.

De la mondizia sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento, líalma sorprende, e di voler le giova.

Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.

E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecentí anni e pi˘, pur mo sentii
libera volont‡ di miglior soglia:

perÚ sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto s˘ li ínviiª.

CosÏ ne disse; e perÚ chíel si gode tanto del ber quantí Ë grande la sete, non saprei dir quantí el mi fece prode.

E íl savio duca: ´Omai veggio la rete che qui vi ímpiglia e come si scalappia, perchÈ ci trema e di che congaudete.

Ora chi fosti, piacciati chíio sappia, e perchÈ tanti secoli giaciuto
qui seí, ne le parole tue mi cappiaª.

´Nel tempo che íl buon Tito, con líaiuto del sommo rege, vendicÚ le fÛra
ondí uscÏ íl sangue per Giuda venduto,

col nome che pi˘ dura e pi˘ onora
era io di l‡ª, rispuose quello spirto, ´famoso assai, ma non con fede ancora.

Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sÈ mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto.

Stazio la gente ancor di l‡ mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma.

Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati pi˘ di mille;

de líEneÔda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanzí essa non fermai peso di dramma.

E per esser vivuto di l‡ quando
visse Virgilio, assentirei un sole
pi˘ che non deggio al mio uscir di bandoª.

Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse ëTacií; ma non puÚ tutto la virt˘ che vuole;

chÈ riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler neí pi˘ veraci.

Io pur sorrisi come líuom chíammicca; per che líombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove íl sembiante pi˘ si ficca;

e ´Se tanto labore in bene assommiª, disse, ´perchÈ la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?ª.

Or son io díuna parte e díaltra preso: líuna mi fa tacer, líaltra scongiura
chíio dica; ondí io sospiro, e sono inteso

dal mio maestro, e ´Non aver pauraª, mi dice, ´di parlar; ma parla e digli
quel chíeí dimanda con cotanta curaª.

Ondí io: ´Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider chíio fei;
ma pi˘ díammirazion voí che ti pigli.

Questi che guida in alto li occhi miei, Ë quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e díi dËi.

Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicestiª.

Gi‡ síinchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: ´Frate,
non far, chÈ tu seí ombra e ombra vediª.

Ed ei surgendo: ´Or puoi la quantitate comprender de líamor chía te mi scalda, quandí io dismento nostra vanitate,

trattando líombre come cosa saldaª.

Purgatorio ∑ Canto XXII

Gi‡ era líangel dietro a noi rimaso, líangel che níavea vÚlti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso;

e quei cíhanno a giustizia lor disiro detto níavea beati, e le sue voci
con ësitiuntí, sanzí altro, ciÚ forniro.

E io pi˘ lieve che per líaltre foci míandava, sÏ che sanzí alcun labore
seguiva in s˘ li spiriti veloci;

quando Virgilio incominciÚ: ´Amore, acceso di virt˘, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fore;

onde da líora che tra noi discese
nel limbo de lo ínferno Giovenale, che la tua affezion mi fÈ palese,

mia benvoglienza inverso te fu quale
pi˘ strinse mai di non vista persona, sÏ chíor mi parran corte queste scale.

Ma dimmi, e come amico mi perdona
se troppa sicurt‡ míallarga il freno, e come amico omai meco ragiona:

come potÈ trovar dentro al tuo seno
loco avarizia, tra cotanto senno
di quanto per tua cura fosti pieno?ª.

Queste parole Stazio mover fenno
un poco a riso pria; poscia rispuose: ´Ogne tuo dir díamor míË caro cenno.

Veramente pi˘ volte appaion cose
che danno a dubitar falsa matera
per le vere ragion che son nascose.

La tua dimanda tuo creder míavvera
esser chíií fossi avaro in líaltra vita, forse per quella cerchia doví io era.

Or sappi chíavarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita.

E se non fosse chíio drizzai mia cura, quandí io intesi l‡ dove tu chiame,
crucciato quasi a líumana natura:

ëPer che non reggi tu, o sacra fame
de líoro, líappetito deí mortali?í, voltando sentirei le giostre grame.

Allor míaccorsi che troppo aprir líali potean le mani a spendere, e penteími
cosÏ di quel come de li altri mali.

Quanti risurgeran coi crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie íl penter vivendo e ne li stremi!

E sappie che la colpa che rimbecca
per dritta opposizione alcun peccato, con esso insieme qui suo verde secca;

perÚ, síio son tra quella gente stato che piange líavarizia, per purgarmi,
per lo contrario suo míË incontratoª.

´Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocastaª,
disse íl cantor deí buccolici carmi,

´per quello che ClÔÚ teco lÏ tasta, non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta.

Se cosÏ Ë, qual sole o quai candele ti stenebraron sÏ, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?ª.

Ed elli a lui: ´Tu prima míinvÔasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio míalluminasti.

Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sÈ non giova, ma dopo sÈ fa le persone dotte,

quando dicesti: ëSecol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano, e progenÔe scende da ciel novaí.

Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perchÈ veggi mei ciÚ chíio disegno, a colorare stenderÚ la mano.

Gi‡ era íl mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata
per li messaggi de líetterno regno;

e la parola tua sopra toccata
si consonava aí nuovi predicanti;
ondí io a visitarli presi usata.

Vennermi poi parendo tanto santi,
che, quando Domizian li perseguette, sanza mio lagrimar non fur lor pianti;

e mentre che di l‡ per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi
fer dispregiare a me tutte altre sette.

E pria chíio conducessi i Greci aí fiumi di Tebe poetando, ebbí io battesmo;
ma per paura chiuso cristian fuími,

lungamente mostrando paganesmo;
e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi fÈ pi˘ che íl quarto centesmo.

Tu dunque, che levato hai il coperchio che míascondeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem soverchio,

dimmi doví Ë Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e in qual vicoª.

´Costoro e Persio e io e altri assaiª, rispuose il duca mio, ´siam con quel Greco che le Muse lattar pi˘ chíaltri mai,

nel primo cinghio del carcere cieco;
spesse fÔate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco.

Euripide víË nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri pi˘e
Greci che gi‡ di lauro ornar la fronte.

Quivi si veggion de le genti tue
Antigone, DeÔfile e Argia,
e Ismene sÏ trista come fue.

VÈdeisi quella che mostrÚ Langia;
Ëvvi la figlia di Tiresia, e Teti, e con le suore sue DeÔdamiaª.

Tacevansi ambedue gi‡ li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti;

e gi‡ le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in s˘ líardente corno,

quando il mio duca: ´Io credo chía lo stremo le destre spalle volger ne convegna,
girando il monte come far solemoª.

CosÏ líusanza fu lÏ nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto
per líassentir di quellí anima degna.

Elli givan dinanzi, e io soletto
di retro, e ascoltava i lor sermoni, chía poetar mi davano intelletto.

Ma tosto ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni;

e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, cosÏ quello in giuso, credí io, perchÈ persona s˘ non vada.

Dal lato onde íl cammin nostro era chiuso, cadea de líalta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso.

Li due poeti a líalber síappressaro; e una voce per entro le fronde
gridÚ: ´Di questo cibo avrete caroª.

Poi disse: ´Pi˘ pensava Maria onde
fosser le nozze orrevoli e intere,
chía la sua bocca, chíor per voi risponde.

E le Romane antiche, per lor bere,
contente furon díacqua; e DanÔello dispregiÚ cibo e acquistÚ savere.

Lo secol primo, quantí oro fu bello, fÈ savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.

Mele e locuste furon le vivande
che nodriro il Batista nel diserto; per chíelli Ë glorÔoso e tanto grande

quanto per lo Vangelio víË apertoª.

Purgatorio ∑ Canto XXIII

Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava Ôo sÏ come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,

lo pi˘ che padre mi dicea: ´Figliuole, vienne oramai, chÈ íl tempo che níË imposto pi˘ utilmente compartir si vuoleª.

Io volsi íl viso, e íl passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sÏe,
che líandar mi facean di nullo costo.

Ed ecco piangere e cantar síudÏe
ëLabÔa mÎa, Domineí per modo
tal, che diletto e doglia parturÏe.

´O dolce padre, che Ë quel chíií odo?ª, cominciaí io; ed elli: ´Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodoª.

SÏ come i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno,

cosÏ di retro a noi, pi˘ tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava
díanime turba tacita e devota.

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema
che da líossa la pelle síinformava.

Non credo che cosÏ a buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando pi˘ níebbe tema.

Io dicea fra me stesso pensando: ëEcco la gente che perdÈ Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diË di becco!í

Parean líocchiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge ëomoí
ben avria quivi conosciuta líemme.

Chi crederebbe che líodor díun pomo sÏ governasse, generando brama,
e quel díuníacqua, non sappiendo como?

Gi‡ era in ammirar che sÏ li affama, per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,

ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi uníombra e guardÚ fiso; poi gridÚ forte: ´Qual grazia míË questa?ª.

Mai non líavrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese
ciÚ che líaspetto in sÈ avea conquiso.

Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese.

´Deh, non contendere a líasciutta scabbia che mi scoloraª, pregava, ´la pelle,
nÈ a difetto di carne chíio abbia;

ma dimmi il ver di te, dÏ chi son quelle due anime che l‡ ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!ª.

´La faccia tua, chíio lagrimai gi‡ morta, mi d‡ di pianger mo non minor dogliaª, rispuosí io lui, ´veggendola sÏ torta.

PerÚ mi dÏ, per Dio, che sÏ vi sfoglia; non mi far dir mentrí io mi maraviglio, chÈ mal puÚ dir chi Ë pien díaltra vogliaª.

Ed elli a me: ´De líetterno consiglio cade vert˘ ne líacqua e ne la pianta
rimasa dietro ondí io sÏ míassottiglio.

Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ín sete qui si rif‡ santa.

Di bere e di mangiar níaccende cura
líodor chíesce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura.

E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,

chÈ quella voglia a li alberi ci mena che menÚ Cristo lieto a dire ëElÏí,
quando ne liberÚ con la sua venaª.

E io a lui: ´Forese, da quel dÏ
nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinquí anni non son vÚlti infino a qui.

Se prima fu la possa in te finita
di peccar pi˘, che sovvenisse líora del buon dolor chía Dio ne rimarita,

come seí tu qua s˘ venuto ancora?
Io ti credea trovar l‡ gi˘ di sotto, dove tempo per tempo si ristoraª.

Ondí elli a me: ´SÏ tosto míha condotto a ber lo dolce assenzo díi martÏri
la Nella mia con suo pianger dirotto.

Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto míha de la costa ove síaspetta, e liberato míha de li altri giri.

Tanto Ë a Dio pi˘ cara e pi˘ diletta la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare Ë pi˘ soletta;

chÈ la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue pi˘ Ë pudica
che la Barbagia doví io la lasciai.

O dolce frate, che vuoí tu chíio dica? Tempo futuro míË gi‡ nel cospetto,
cui non sar‡ questí ora molto antica,

nel qual sar‡ in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine
líandar mostrando con le poppe il petto.

Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?

Ma se le svergognate fosser certe
di quel che íl ciel veloce loro ammanna, gi‡ per urlare avrian le bocche aperte;

chÈ, se líantiveder qui non míinganna, prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.

Deh, frate, or fa che pi˘ non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira l‡ dove íl sol veliª.

Per chíio a lui: ´Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.

Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, líaltrí ier, quando tonda vi si mostrÚ la suora di coluiª,

e íl sol mostrai; ´costui per la profonda notte menato míha díi veri morti
con questa vera carne che íl seconda.

Indi míhan tratto s˘ li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che íl mondo fece torti.

Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarÚ l‡ dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna.

Virgilio Ë questi che cosÏ mi diceª, e additaílo; ´e questí altro Ë quellí ombra per cuÔ scosse dianzi ogne pendice

lo vostro regno, che da sÈ lo sgombraª.

Purgatorio ∑ Canto XXIV

NÈ íl dir líandar, nÈ líandar lui pi˘ lento facea, ma ragionando andavam forte,
sÏ come nave pinta da buon vento;

e líombre, che parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione traean di me, di mio vivere accorte.

E io, contin¸ando al mio sermone,
dissi: ´Ella sen va s˘ forse pi˘ tarda che non farebbe, per altrui cagione.

Ma dimmi, se tu sai, doví Ë Piccarda; dimmi síio veggio da notar persona
tra questa gente che sÏ mi riguardaª.

´La mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse pi˘, trÔunfa lieta
ne líalto Olimpo gi‡ di sua coronaª.

SÏ disse prima; e poi: ´Qui non si vieta di nominar ciascun, da chíË sÏ munta
nostra sembianza via per la dÔeta.

Questiª, e mostrÚ col dito, ´Ë Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di l‡ da lui pi˘ che líaltre trapunta

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno
líanguille di Bolsena e la vernacciaª.

Molti altri mi nomÚ ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sÏ chíio perÚ non vidi un atto bruno.

Vidi per fame a vÚto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturÚ col rocco molte genti.

Vidi messer Marchese, chíebbe spazio gi‡ di bere a ForlÏ con men secchezza, e sÏ fu tal, che non si sentÏ sazio.

Ma come fa chi guarda e poi síapprezza pi˘ díun che díaltro, fei a quel da Lucca, che pi˘ parea di me aver contezza.

El mormorava; e non so che ´Gentuccaª sentiví io l‡, oví el sentia la piaga de la giustizia che sÏ li pilucca.

´O animaª, dissí io, ´che par sÏ vaga di parlar meco, fa sÏ chíio tíintenda, e te e me col tuo parlare appagaª.

´Femmina Ë nata, e non porta ancor bendaª, cominciÚ el, ´che ti far‡ piacere
la mia citt‡, come chíom la riprenda.

Tu te níandrai con questo antivedere: se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.

Ma dÏ síií veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando
ëDonne chíavete intelletto díamoreíª.

E io a lui: ´Ií mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo
chíeí ditta dentro vo significandoª.

´O frate, issa veggí ioª, dissí elli, ´il nodo che íl Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo chíií odo!

Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne;

e qual pi˘ a gradire oltre si mette, non vede pi˘ da líuno a líaltro stiloª; e, quasi contentato, si tacette.

Come li augei che vernan lungo íl Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan pi˘ a fretta e vanno in filo,

cosÏ tutta la gente che lÏ era,
volgendo íl viso, raffrettÚ suo passo, e per magrezza e per voler leggera.

E come líuom che di trottare Ë lasso, lascia andar li compagni, e sÏ passeggia fin che si sfoghi líaffollar del casso,

sÏ lasciÚ trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: ´Quando fia chíio ti riveggia?ª.

´Non soª, rispuosí io lui, ´quantí io mi viva; ma gi‡ non fÔa il tornar mio tantosto, chíio non sia col voler prima a la riva;

perÚ che íl loco uí fui a viver posto, di giorno in giorno pi˘ di ben si spolpa, e a trista ruina par dispostoª.

´Or vaª, dissí el; ´che quei che pi˘ níha colpa, veggí Ôo a coda díuna bestia tratto
inverí la valle ove mai non si scolpa.

La bestia ad ogne passo va pi˘ ratto, crescendo sempre, fin chíella il percuote, e lascia il corpo vilmente disfatto.

Non hanno molto a volger quelle ruoteª, e drizzÚ li occhi al ciel, ´che ti fia chiaro ciÚ che íl mio dir pi˘ dichiarar non puote.

Tu ti rimani omai; chÈ íl tempo Ë caro in questo regno, sÏ chíio perdo troppo venendo teco sÏ a paro a paroª.

Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo,

tal si partÏ da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sÏ gran marescalchi.

E quando innanzi a noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue,

parvermi i rami gravidi e vivaci
díun altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vÚlto in laci.

Vidi gente sottí esso alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani

che pregano, e íl pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde.

Poi si partÏ sÏ come ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta.

´Trapassate oltre sanza farvi presso: legno Ë pi˘ s˘ che fu morso da Eva,
e questa pianta si levÚ da essoª.

SÏ tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva.

´Ricordiviª, dicea, ´díi maladetti nei nuvoli formati, che, satolli,
TesÎo combatter coí doppi petti;

e de li Ebrei chíal ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni,
quando inverí MadÔan discese i colliª.

SÏ accostati a líun díi due vivagni passammo, udendo colpe de la gola
seguite gi‡ da miseri guadagni.

Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e pi˘ ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola.

´Che andate pensando sÏ voi sol tre?ª. s˘bita voce disse; ondí io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre.

Drizzai la testa per veder chi fossi; e gi‡ mai non si videro in fornace
vetri o metalli sÏ lucenti e rossi,

comí io vidi un che dicea: ´Sía voi piace montare in s˘, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per paceª.

Líaspetto suo míavea la vista tolta; per chíio mi volsi dietro aí miei dottori, comí om che va secondo chíelli ascolta.

E quale, annunziatrice de li albori,
líaura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da líerba e daí fiori;

tal mi sentií un vento dar per mezza la fronte, e ben sentií mover la piuma, che fÈ sentir díambrosÔa líorezza.

E sentií dir: ´Beati cui alluma
tanto di grazia, che líamor del gusto nel petto lor troppo disir non fuma,

esurÔendo sempre quanto Ë giusto!ª.

Purgatorio ∑ Canto XXV

Ora era onde íl salir non volea storpio; chÈ íl sole avÎa il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:

per che, come fa líuom che non síaffigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, se di bisogno stimolo il trafigge,

cosÏ intrammo noi per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala che per artezza i salitor dispaia.

E quale il cicognin che leva líala
per voglia di volare, e non síattenta díabbandonar lo nido, e gi˘ la cala;

tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a líatto
che fa colui chía dicer síargomenta.

Non lasciÚ, per líandar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: ´Scocca
líarco del dir, che ínfino al ferro hai trattoª.

Allor sicuramente aprií la bocca
e cominciai: ´Come si puÚ far magro l‡ dove líuopo di nodrir non tocca?ª.

´Se tíammentassi come Meleagro
si consumÚ al consumar díun stizzo, non foraª, disse, ´a te questo sÏ agro;

e se pensassi come, al vostro guizzo, guizza dentro a lo specchio vostra image, ciÚ che par duro ti parrebbe vizzo.

Ma perchÈ dentro a tuo voler tíadage, ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego che sia or sanator de le tue piageª.

´Se la veduta etterna li dislegoª,
rispuose Stazio, ´l‡ dove tu sie, discolpi me non potertí io far negoª.

Poi cominciÚ: ´Se le parole mie,
figlio, la mente tua guarda e riceve, lume ti fiero al come che tu die.

Sangue perfetto, che poi non si beve
da líassetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,

prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
chía farsi quelle per le vene vane.

Ancor digesto, scende oví Ë pi˘ bello tacer che dire; e quindi poscia geme
sovrí altrui sangue in natural vasello.

Ivi síaccoglie líuno e líaltro insieme, líun disposto a patire, e líaltro a fare per lo perfetto loco onde si preme;

e, giunto lui, comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
ciÚ che per sua matera fÈ constare.

Anima fatta la virtute attiva
qual díuna pianta, in tanto differente, che questa Ë in via e quella Ë gi‡ a riva,

tanto ovra poi, che gi‡ si move e sente, come spungo marino; e indi imprende
ad organar le posse ondí Ë semente.

Or si spiega, figliuolo, or si distende la virt˘ chíË dal cor del generante,
dove natura a tutte membra intende.

Ma come díanimal divegna fante,
non vedi tu ancor: questí Ë tal punto, che pi˘ savio di te fÈ gi‡ errante,

sÏ che per sua dottrina fÈ disgiunto da líanima il possibile intelletto,
perchÈ da lui non vide organo assunto.

Apri a la verit‡ che viene il petto; e sappi che, sÏ tosto come al feto
líarticular del cerebro Ë perfetto,

lo motor primo a lui si volge lieto
sovra tantí arte di natura, e spira spirito novo, di vert˘ repleto,

che ciÚ che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi uníalma sola, che vive e sente e sÈ in sÈ rigira.

E perchÈ meno ammiri la parola,
guarda il calor del sole che si fa vino, giunto a líomor che de la vite cola.

Quando L‡chesis non ha pi˘ del lino, solvesi da la carne, e in virtute
ne porta seco e líumano e íl divino:

líaltre potenze tutte quante mute;
memoria, intelligenza e volontade
in atto molto pi˘ che prima agute.

Sanza restarsi, per sÈ stessa cade
mirabilmente a líuna de le rive;
quivi conosce prima le sue strade.

Tosto che loco lÏ la circunscrive,
la virt˘ formativa raggia intorno
cosÏ e quanto ne le membra vive.

E come líaere, quandí Ë ben pÔorno, per líaltrui raggio che ín sÈ si reflette, di diversi color diventa addorno;

cosÏ líaere vicin quivi si mette
e in quella forma chíË in lui suggella virt¸almente líalma che ristette;

e simigliante poi a la fiammella
che segue il foco l‡ ívunque si muta, segue lo spirto sua forma novella.

PerÚ che quindi ha poscia sua paruta, Ë chiamata ombra; e quindi organa poi
ciascun sentire infino a la veduta.

Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e í sospiri che per lo monte aver sentiti puoi.

Secondo che ci affliggono i disiri
e li altri affetti, líombra si figura; e questí Ë la cagion di che tu miriª.

E gi‡ venuto a líultima tortura
síera per noi, e vÚlto a la man destra, ed eravamo attenti ad altra cura.

Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso
che la reflette e via da lei sequestra;

ondí ir ne convenia dal lato schiuso ad uno ad uno; e io temÎa íl foco
quinci, e quindi temeva cader giuso.

Lo duca mio dicea: ´Per questo loco
si vuol tenere a li occhi stretto il freno, perÚ chíerrar potrebbesi per pocoª.

ëSummae Deus clementÔaeí nel seno
al grande ardore allora udií cantando, che di volger mi fÈ caler non meno;

e vidi spirti per la fiamma andando;
per chíio guardava a loro e aí miei passi compartendo la vista a quando a quando.

Appresso il fine chía quellí inno fassi, gridavano alto: ëVirum non cognoscoí;
indi ricominciavan líinno bassi.

Finitolo, anco gridavano: ´Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tÚscoª.

Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.

E questo modo credo che lor basti
per tutto il tempo che íl foco li abbruscia: con tal cura conviene e con tai pasti

che la piaga da sezzo si ricuscia.

Purgatorio ∑ Canto XXVI

Mentre che sÏ per líorlo, uno innanzi altro, ce níandavamo, e spesso il buon maestro diceami: ´Guarda: giovi chíio ti scaltroª;

feriami il sole in su líomero destro, che gi‡, raggiando, tutto líoccidente mutava in bianco aspetto di cilestro;

e io facea con líombra pi˘ rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio vidi moltí ombre, andando, poner mente.

Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: ´Colui non par corpo fittizioª;

poi verso me, quanto potÎan farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.

´O tu che vai, non per esser pi˘ tardo, ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che ín sete e ín foco ardo.

NÈ solo a me la tua risposta Ë uopo; chÈ tutti questi níhanno maggior sete
che díacqua fredda Indo o EtÔopo.

Dinne comí Ë che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora di morte intrato dentro da la reteª.

SÏ mi parlava un díessi; e io mi fora gi‡ manifesto, síio non fossi atteso
ad altra novit‡ chíapparve allora;

chÈ per lo mezzo del cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa, la qual mi fece a rimirar sospeso.

LÏ veggio díogne parte farsi presta ciascuní ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa;

cosÏ per entro loro schiera bruna
síammusa líuna con líaltra formica, forse a spÔar lor via e lor fortuna.

Tosto che parton líaccoglienza amica, prima che íl primo passo lÏ trascorra, sopragridar ciascuna síaffatica:

la nova gente: ´Soddoma e Gomorraª; e líaltra: ´Ne la vacca entra Pasife,
perchÈ íl torello a sua lussuria corraª.

Poi, come grue chía le montagne Rife volasser parte, e parte inverí líarene, queste del gel, quelle del sole schife,

líuna gente sen va, líaltra sen vene; e tornan, lagrimando, aí primi canti
e al gridar che pi˘ lor si convene;

e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che míavean pregato,
attenti ad ascoltar neí lor sembianti.

Io, che due volte avea visto lor grato, incominciai: ´O anime sicure
díaver, quando che sia, di pace stato,

non son rimase acerbe nÈ mature
le membra mie di l‡, ma son qui meco col sangue suo e con le sue giunture.

Quinci s˘ vo per non esser pi˘ cieco; donna Ë di sopra che míacquista grazia, per che íl mortal per vostro mondo reco.

Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sÏ che íl ciel víalberghi chíË pien díamore e pi˘ ampio si spazia,

ditemi, acciÚ chíancor carte ne verghi, chi siete voi, e chi Ë quella turba
che se ne va di retro aí vostri terghiª.

Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico síinurba,

che ciascuní ombra fece in sua paruta; ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto síattuta,

´Beato te, che de le nostre marcheª, ricominciÚ colei che pria míinchiese,
´per morir meglio, esperÔenza imbarche!

La gente che non vien con noi, offese di ciÚ per che gi‡ Cesar, trÔunfando, ìReginaî contra sÈ chiamar síintese:

perÚ si parton ìSoddomaî gridando, rimproverando a sÈ comí hai udito,
e aiutan líarsura vergognando.

Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perchÈ non servammo umana legge, seguendo come bestie líappetito,

in obbrobrio di noi, per noi si legge, quando partinci, il nome di colei
che síimbestiÚ ne le ímbestiate schegge.

Or sai nostri atti e di che fummo rei: se forse a nome vuoí saper chi semo,
tempo non Ë di dire, e non saprei.

Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizzelli, e gi‡ mi purgo per ben dolermi prima chía lo stremoª.

Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre, tal mi fecí io, ma non a tanto insurgo,

quandí io odo nomar sÈ stesso il padre mio e de li altri miei miglior che mai
rime díamore usar dolci e leggiadre;

e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fÔata rimirando lui,
nÈ, per lo foco, in l‡ pi˘ míappressai.

Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto míoffersi pronto al suo servigio con líaffermar che fa credere altrui.

Ed elli a me: ´Tu lasci tal vestigio, per quel chíií odo, in me, e tanto chiaro, che LetË nol puÚ tÚrre nÈ far bigio.

Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che Ë cagion per che dimostri nel dire e nel guardar díavermi caroª.

E io a lui: ´Li dolci detti vostri,
che, quanto durer‡ líuso moderno, faranno cari ancora i loro incostriª.

´O frateª, disse, ´questi chíio ti cerno col ditoª, e additÚ un spirto innanzi, ´fu miglior fabbro del parlar materno.

Versi díamore e prose di romanzi
soverchiÚ tutti; e lascia dir li stolti che quel di LemosÏ credon chíavanzi.

A voce pi˘ chíal ver drizzan li volti, e cosÏ ferman sua oppinÔone
prima chíarte o ragion per lor síascolti.

CosÏ fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio, fin che líha vinto il ver con pi˘ persone.

Or se tu hai sÏ ampio privilegio,
che licito ti sia líandare al chiostro nel quale Ë Cristo abate del collegio,

falli per me un dir díun paternostro, quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non Ë pi˘ nostroª.

Poi, forse per dar luogo altrui secondo che presso avea, disparve per lo foco,
come per líacqua il pesce andando al fondo.

Io mi fei al mostrato innanzi un poco, e dissi chíal suo nome il mio disire
apparecchiava grazÔoso loco.

El cominciÚ liberamente a dire:
´Tan míabellis vostre cortes deman, quíieu no me puesc ni voill a vos cobrire.

Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi quíesper, denan.

Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de líescalina, sovenha vos a temps de ma dolor!ª.

Poi síascose nel foco che li affina.

Purgatorio ∑ Canto XXVII

SÏ come quando i primi raggi vibra
l‡ dove il suo fattor lo sangue sparse, cadendo Ibero sotto líalta Libra,

e líonde in Gange da nona rÔarse,
sÏ stava il sole; onde íl giorno sen giva, come líangel di Dio lieto ci apparse.

Fuor de la fiamma stava in su la riva, e cantava ëBeati mundo corde!í
in voce assai pi˘ che la nostra viva.

Poscia ´Pi˘ non si va, se pria non morde, anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di l‡ non siate sordeª,

ci disse come noi li fummo presso;
per chíio divenni tal, quando lo íntesi, qual Ë colui che ne la fossa Ë messo.

In su le man commesse mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte umani corpi gi‡ veduti accesi.

Volsersi verso me le buone scorte;
e Virgilio mi disse: ´Figliuol mio, qui puÚ esser tormento, ma non morte.

Ricorditi, ricorditi! E se io
sovresso GerÔon ti guidai salvo,
che farÚ ora presso pi˘ a Dio?

Credi per certo che se dentro a líalvo di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far díun capel calvo.

E se tu forse credi chíio tíinganni, fatti verí lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo díi tuoi panni.

Pon gi˘ omai, pon gi˘ ogne temenza; volgiti in qua e vieni: entra sicuro!ª. E io pur fermo e contra coscÔenza.

Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco disse: ´Or vedi, figlio: tra BÎatrice e te Ë questo muroª.

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che íl gelso diventÚ vermiglio;

cosÏ, la mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla.

Ondí ei crollÚ la fronte e disse: ´Come! volenci star di qua?ª; indi sorrise
come al fanciul si fa chíË vinto al pome.

Poi dentro al foco innanzi mi si mise, pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise.

SÏ comí fui dentro, in un bogliente vetro gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tantí era ivi lo íncendio sanza metro.

Lo dolce padre mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: ´Li occhi suoi gi‡ veder parmiª.

Guidavaci una voce che cantava
di l‡; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor l‡ ove si montava.

ëVenite, benedicti Patris meií,
sonÚ dentro a un lume che lÏ era, tal che mi vinse e guardar nol potei.

´Lo sol sen vaª, soggiunse, ´e vien la sera; non víarrestate, ma studiate il passo,
mentre che líoccidente non si anneraª.

Dritta salia la via per entro íl sasso verso tal parte chíio toglieva i raggi
dinanzi a me del sol chíera gi‡ basso.

E di pochi scaglion levammo i saggi,
che íl sol corcar, per líombra che si spense, sentimmo dietro e io e li miei saggi.

E pria che ín tutte le sue parti immense fosse orizzonte fatto díuno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense,

ciascun di noi díun grado fece letto; chÈ la natura del monte ci affranse
la possa del salir pi˘ e íl diletto.

Quali si stanno ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,

tacite a líombra, mentre che íl sol ferve, guardate dal pastor, che ín su la verga poggiato síË e lor di posa serve;

e quale il mandrÔan che fori alberga, lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perchÈ fiera non lo sperga;

tali eravamo tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi díalta grotta.

Poco parer potea lÏ del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle di lor solere e pi˘ chiare e maggiori.

SÏ ruminando e sÏ mirando in quelle, mi prese il sonno; il sonno che sovente, anzi che íl fatto sia, sa le novelle.

Ne líora, credo, che de líorÔente
prima raggiÚ nel monte Citerea,
che di foco díamor par sempre ardente,

giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:

´Sappia qualunque il mio nome dimanda chíií mi son Lia, e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda.

Per piacermi a lo specchio, qui míaddorno; ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.

Ellí Ë díi suoi belli occhi veder vaga comí io de líaddornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me líovrare appagaª.

E gi‡ per li splendori antelucani,
che tanto aí pellegrin surgon pi˘ grati, quanto, tornando, albergan men lontani,

le tenebre fuggian da tutti lati,
e íl sonno mio con esse; ondí io levaími, veggendo i gran maestri gi‡ levati.

´Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura deí mortali,
oggi porr‡ in pace le tue famiª.

Virgilio inverso me queste cotali
parole usÚ; e mai non furo strenne che fosser di piacere a queste iguali.

Tanto voler sopra voler mi venne
de líesser s˘, chíad ogne passo poi al volo mi sentia crescer le penne.

Come la scala tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su íl grado superno, in me ficcÚ Virgilio li occhi suoi,

e disse: ´Il temporal foco e líetterno veduto hai, figlio; e seí venuto in parte doví io per me pi˘ oltre non discerno.

Tratto tího qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor seí de líerte vie, fuor seí de líarte.

Vedi lo sol che ín fronte ti riluce; vedi líerbette, i fiori e li arbuscelli che qui la terra sol da sÈ produce.

Mentre che vegnan lieti li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.

Non aspettar mio dir pi˘ nÈ mio cenno; libero, dritto e sano Ë tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:

per chíio te sovra te corono e mitrioª.

Purgatorio ∑ Canto XXVIII

Vago gi‡ di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva,
chía li occhi temperava il novo giorno,

sanza pi˘ aspettar, lasciai la riva, prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che díogne parte auliva.

Uníaura dolce, sanza mutamento
avere in sÈ, mi feria per la fronte non di pi˘ colpo che soave vento;

per cui le fronde, tremolando, pronte tutte quante piegavano a la parte
uí la primí ombra gitta il santo monte;

non perÚ dal loro esser dritto sparte tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser díoperare ogne lor arte;

ma con piena letizia líore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie, che tenevan bordone a le sue rime,

tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su íl lito di Chiassi, quandí Àolo scilocco fuor discioglie.

Gi‡ míavean trasportato i lenti passi dentro a la selva antica tanto, chíio
non potea rivedere ondí io mi íntrassi;

ed ecco pi˘ andar mi tolse un rio,
che ínverí sinistra con sue picciole onde piegava líerba che ín sua ripa uscÏo.

Tutte líacque che son di qua pi˘ monde, parrieno avere in sÈ mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,

avvegna che si mova bruna bruna
sotto líombra perpet¸a, che mai
raggiar non lascia sole ivi nÈ luna.

Coi piË ristetti e con li occhi passai di l‡ dal fiumicello, per mirare
la gran varÔazion díi freschi mai;

e l‡ míapparve, sÏ comí elli appare subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,

una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore ondí era pinta tutta la sua via.

´Deh, bella donna, che aí raggi díamore ti scaldi, síií voí credere aí sembianti che soglion esser testimon del core,

vegnati in voglia di trarreti avantiª, dissí io a lei, ´verso questa rivera,
tanto chíio possa intender che tu canti.

Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primaveraª.

Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sÈ, donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette,

volsesi in su i vermigli e in su i gialli fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;

e fece i prieghi miei esser contenti, sÏ appressando sÈ, che íl dolce suono veniva a me coí suoi intendimenti.

Tosto che fu l‡ dove líerbe sono
bagnate gi‡ da líonde del bel fiume, di levar li occhi suoi mi fece dono.

Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.

Ella ridea da líaltra riva dritta,
trattando pi˘ color con le sue mani, che líalta terra sanza seme gitta.

Tre passi ci facea il fiume lontani;
ma Elesponto, l‡ íve passÚ Serse, ancora freno a tutti orgogli umani,

pi˘ odio da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perchí allor non síaperse.

´Voi siete nuovi, e forse perchí io ridoª, cominciÚ ella, ´in questo luogo eletto a líumana natura per suo nido,

maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.

E tu che seí dinanzi e mi pregasti,
dÏ síaltro vuoli udir; chíií venni presta ad ogne tua question tanto che bastiª.

´Líacquaª, dissí io, ´e íl suon de la foresta impugnan dentro a me novella fede
di cosa chíio udií contraria a questaª.

Ondí ella: ´Io dicerÚ come procede per sua cagion ciÚ chíammirar ti face, e purgherÚ la nebbia che ti fiede.

Lo sommo Ben, che solo esso a sÈ piace, fÈ líuom buono e a bene, e questo loco diede per arrí a lui díetterna pace.

Per sua difalta qui dimorÚ poco;
per sua difalta in pianto e in affanno cambiÚ onesto riso e dolce gioco.

PerchÈ íl turbar che sotto da sÈ fanno líessalazion de líacqua e de la terra, che quanto posson dietro al calor vanno,

a líuomo non facesse alcuna guerra,
questo monte salÏo verso íl ciel tanto, e libero níË díindi ove si serra.

Or perchÈ in circuito tutto quanto
líaere si volge con la prima volta, se non li Ë rotto il cerchio díalcun canto,

in questa altezza chíË tutta disciolta ne líaere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perchí Ë folta;

e la percossa pianta tanto puote,
che de la sua virtute líaura impregna e quella poi, girando, intorno scuote;

e líaltra terra, secondo chíË degna per sÈ e per suo ciel, concepe e figlia di diverse virt˘ diverse legna.

Non parrebbe di l‡ poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi síappiglia.

E saper dei che la campagna santa
dove tu seí, díogne semenza Ë piena, e frutto ha in sÈ che di l‡ non si schianta.

Líacqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta, come fiume chíacquista e perde lena;

ma esce di fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende, quantí ella versa da due parti aperta.

Da questa parte con virt˘ discende
che toglie altrui memoria del peccato; da líaltra díogne ben fatto la rende.

Quinci LetË; cosÏ da líaltro lato
E¸noË si chiama, e non adopra
se quinci e quindi pria non Ë gustato:

a tutti altri sapori esto Ë di sopra. E avvegna chíassai possa esser sazia
la sete tua perchí io pi˘ non ti scuopra,

darotti un corollario ancor per grazia; nÈ credo che íl mio dir ti sia men caro, se oltre promession teco si spazia.

Quelli chíanticamente poetaro
líet‡ de líoro e suo stato felice, forse in Parnaso esto loco sognaro.

Qui fu innocente líumana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;