punto non fu da me guardare sciolta.
´Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quantà à mestiere infino al sommo smaltoª,
comincià ella, ´se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che giâ¡ grande lâ¡ era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son lÃantico, ma di lui discesi; aà miei portai lÃamor che qui raffinaª.
´Oh!ª, dissà io lui, ´per li vostri paesi gi⡠mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa chÃei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada, sà che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, sÃio di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sà la privilegia,
che, perchà il capo reo il mondo torca, sola va dritta e Ãl mal cammin dispregiaª.
Ed elli: ´Or va; che Ãl sol non si ricorca sette volte nel letto che Ãl Montone
con tutti e quattro i pià cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinÃone
ti fia chiavata in mezzo de la testa con maggior chiovi che dÃaltrui sermone,
se corso di giudicio non sÃarrestaª.
Purgatorio â Canto IX
La concubina di Titone antico
giâ¡ sÃimbiancava al balco dÃorÃente, fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
e la notte, deà passi con che sale,
fatti avea due nel loco ovà eravamo, e Ãl terzo giâ¡ chinava in giuso lÃale;
quandà io, che meco avea di quel dÃAdamo, vinto dal sonno, in su lÃerba inchinai
lâ¡ Ãve giâ¡ tutti e cinque sedavamo.
Ne lÃora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria deà suoà primi guai,
e che la mente nostra, peregrina
piË da la carne e men daà pensier presa, a le sue visÃon quasi à divina,
in sogno mi parea veder sospesa
unÃaguglia nel ciel con penne dÃoro, con lÃali aperte e a calare intesa;
ed esser mi parea lâ¡ dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava: ëForse questa fiede
pur qui per uso, e forse dÃaltro loco disdegna di portarne suso in piedeÃ.
Poi mi parea che, poi rotata un poco, terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
Ivi parea che ella e io ardesse;
e sà lo Ãncendio imaginato cosse, che convenne che Ãl sonno si rompesse.
Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo lâ¡ dove si fosse,
quando la madre da ChirÃn a Schiro
trafuggà lui dormendo in le sue braccia, l⡠onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scossà io, sà come da la faccia mi fuggà Ãl sonno, e diventaà ismorto, come fa lÃuom che, spaventato, agghiaccia.
Dallato mÃera solo il mio conforto,
e Ãl sole erà alto giâ¡ piË che due ore, e Ãl viso mÃera a la marina torto.
´Non aver temaª, disse il mio segnore; ´fatti sicur, chà noi semo a buon punto; non stringer, ma rallarga ogne vigore.
Tu seà omai al purgatorio giunto:
vedi lâ¡ il balzo che Ãl chiude dintorno; vedi lÃentrata lâ¡ Ãve par digiunto.
Dianzi, ne lÃalba che procede al giorno, quando lÃanima tua dentro dormia,
sovra li fiori ondà à lâ¡ giË addorno
venne una donna, e disse: ìIà son Lucia; lasciatemi pigliar costui che dorme;
sà lÃagevolerà per la sua viaî.
Sordel rimase e lÃaltre genti forme; ella ti tolse, e come Ãl dà fu chiaro, sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posÃ, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta; poi ella e Ãl sonno ad una se nÃandaroª.
A guisa dÃuom che Ãn dubbio si raccerta e che muta in conforto sua paura,
poi che la verit⡠li à discoperta,
mi cambiaà io; e come sanza cura
vide me Ãl duca mio, su per lo balzo si mosse, e io di rietro inverà lÃaltura.
Lettor, tu vedi ben comà io innalzo
la mia matera, e perà con piË arte non ti maravigliar sÃio la rincalzo.
Noi ci appressammo, ed eravamo in parte che lâ¡ dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,
vidi una porta, e tre gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi, e un portier chÃancor non facea motto.
E come lÃocchio piË e piË vÃapersi, vidil seder sovra Ãl grado sovrano,
tal ne la faccia chÃio non lo soffersi;
e una spada nuda avÃa in mano,
che reflettÃa i raggi sà verà noi, chÃio drizzava spesso il viso in vano.
´Dite costinci: che volete voi?ª,
comincià elli a dire, ´ovà à la scorta? Guardate che Ãl venir sË non vi nÃiª.
´Donna del ciel, di queste cose accortaª, rispuose Ãl mio maestro a lui, ´pur dianzi ne disse: ìAndate lâ¡: quivi à la portaîª.
´Ed ella i passi vostri in bene avanziª, ricomincià il cortese portinaio:
´Venite dunque aà nostri gradi innanziª.
L⡠ne venimmo; e lo scaglion primaio bianco marmo era sà pulito e terso,
chÃio mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo tinto piË che perso,
dÃuna petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che di sopra sÃammassiccia, porfido mi parea, sà fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.
Sovra questo tenÃa ambo le piante
lÃangel di Dio sedendo in su la soglia che mi sembiava pietra di diamante.
Per li tre gradi sË di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: ´Chiedi umilemente che Ãl serrame sciogliaª.
Divoto mi gittai aà santi piedi;
misericordia chiesi e chÃel mÃaprisse, ma tre volte nel petto pria mi diedi.
Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e ´Fa che lavi, quando seà dentro, queste piagheª disse.
Cenere, o terra che secca si cavi,
dÃun color fora col suo vestimento; e di sotto da quel trasse due chiavi.
LÃuna era dÃoro e lÃaltra era dÃargento; pria con la bianca e poscia con la gialla fece a la porta sÃ, chÃià fuà contento.
´Quandunque lÃuna dÃeste chiavi falla, che non si volga dritta per la toppaª,
dissà elli a noi, ´non sÃapre questa calla.
PiË cara à lÃuna; ma lÃaltra vuol troppa dÃarte e dÃingegno avanti che diserri, perchà ella à quella che Ãl nodo digroppa.
Da Pier le tegno; e dissemi chÃià erri anzi ad aprir chÃa tenerla serrata,
pur che la gente aà piedi mi sÃatterriª.
Poi pinse lÃuscio a la porta sacrata, dicendo: ´Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi Ãn dietro si guataª.
E quando fuor neà cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghià sà nà si mostrà sà acra TarpÃa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento al primo tuono, e ëTe Deum laudamusà mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
cià chÃio udiva, qual prender si suole quando a cantar con organi si stea;
chÃor sà or no sÃintendon le parole.
Purgatorio â Canto X
Poi fummo dentro al soglio de la porta che Ãl mal amor de lÃanime disusa,
perchà fa parer dritta la via torta,
sonando la sentià esser richiusa;
e sÃio avesse li occhi vÃlti ad essa, qual fora stata al fallo degna scusa?
Noi salavam per una pietra fessa,
che si moveva e dÃuna e dÃaltra parte, sà come lÃonda che fugge e sÃappressa.
´Qui si conviene usare un poco dÃarteª, comincià Ãl duca mio, ´in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parteª.
E questo fece i nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
che noi fossimo fuor di quella cruna; ma quando fummo liberi e aperti
sË dove il monte in dietro si rauna,
Ão stancato e amendue incerti
di nostra via, restammo in su un piano solingo piË che strade per diserti.
Da la sua sponda, ove confina il vano, al pià de lÃalta ripa che pur sale,
misurrebbe in tre volte un corpo umano;
e quanto lÃocchio mio potea trar dÃale, or dal sinistro e or dal destro fianco,
questa cornice mi parea cotale.
Lâ¡ sË non eran mossi i pià nostri anco, quandà io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido e addorno
dÃintagli sÃ, che non pur Policleto, ma la natura là avrebbe scorno.
LÃangel che venne in terra col decreto de la moltà anni lagrimata pace,
chÃaperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sà verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria chÃel dicesse ëAve!Ã; perchà ivà era imaginata quella
chÃad aprir lÃalto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
ëEcce ancilla DeÃÃ, propriamente come figura in cera si suggella.
´Non tener pur ad un loco la menteª, disse Ãl dolce maestro, che mÃavea
da quella parte onde Ãl cuore ha la gente.
Per chÃià mi mossi col viso, e vedea di retro da Maria, da quella costa
onde mÃera colui che mi movea,
unÃaltra storia ne la roccia imposta; per chÃio varcai Virgilio, e feÃmi presso, accià che fosse a li occhi miei disposta.
Era intagliato là nel marmo stesso
lo carro e à buoi, traendo lÃarca santa, per che si teme officio non commesso.
Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, aà due mieà sensi faceva dir lÃun ëNoÃ, lÃaltro ëSÃ, cantaÃ.
Similemente al fummo de li Ãncensi
che vÃera imaginato, li occhi e Ãl naso e al sà e al no discordi fensi.
LÃ precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, lÃumile salmista, e piË e men che re era in quel caso.
Di contra, effigÃata ad una vista
dÃun gran palazzo, MicÃl ammirava sà come donna dispettosa e trista.
Ià mossi i pià del loco dovà io stava, per avvisar da presso unÃaltra istoria, che di dietro a MicÃl mi biancheggiava.
Quivà era storÃata lÃalta gloria
del roman principato, il cui valore mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
ià dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e lÃaguglie ne lÃoro sovrà essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra tutti costoro
pareva dir: ´Segnor, fammi vendetta di mio figliuol chÃà morto, ondà io mÃaccoroª;
ed elli a lei rispondere: ´Or aspetta tanto chÃià torniª; e quella: ´Segnor mioª, come persona in cui dolor sÃaffretta,
´se tu non torni?ª; ed ei: ´Chi fia dovà io, la ti farâ¡Âª; ed ella: ´LÃaltrui bene a te che fia, se Ãl tuo metti in oblio?ª;
ondà elli: ´Or ti conforta; chÃei convene chÃià solva il mio dovere anzi chÃià mova: giustizia vuole e pietâ¡ mi riteneª.
Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perchà qui non si trova.
Mentrà io mi dilettava di guardare
lÃimagini di tante umilitadi,
e per lo fabbro loro a veder care,
´Ecco di qua, ma fanno i passi radiª, mormorava il poeta, ´molte genti:
questi ne ÃnvÃeranno a li alti gradiª.
Li occhi miei, chÃa mirare eran contenti per veder novitadi ondà eà son vaghi,
volgendosi verà lui non furon lenti.
Non voà perÃ, lettor, che tu ti smaghi di buon proponimento per udire
come Dio vuol che Ãl debito si paghi.
Non attender la forma del martÃre:
pensa la succession; pensa chÃal peggio oltre la gran sentenza non puà ire.
Io cominciai: ´Maestro, quel chÃio veggio muovere a noi, non mi sembian persone,
e non so che, sà nel veder vaneggioª.
Ed elli a me: ´La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia, sà che à miei occhi pria nÃebber tencione.
Ma guarda fiso lâ¡, e disviticchia
col viso quel che vien sotto a quei sassi: gi⡠scorger puoi come ciascun si picchiaª.
O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete neà retrosi passi,
non vÃaccorgete voi che noi siam vermi nati a formar lÃangelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che lÃanimo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto,
sà come vermo in cui formazion falla?
Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non ver vera rancura
nascere Ãn chi la vede; cosà fatti vidà io color, quando puosi ben cura.
Vero à che piË e meno eran contratti secondo chÃavien piË e meno a dosso;
e qual piË pazÃenza avea ne li atti,
piangendo parea dicer: ëPiË non possoÃ.
Purgatorio â Canto XI
´O Padre nostro, che neà cieli stai, non circunscritto, ma per piË amore
chÃai primi effetti di lâ¡ sË tu hai,
laudato sia Ãl tuo nome e Ãl tuo valore da ogne creatura, comà à degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna verà noi la pace del tuo regno, chà noi ad essa non potem da noi,
sÃella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna, cosà facciano li uomini deà suoi.
Dâ¡ oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi piË di gir sÃaffanna.
E come noi lo mal chÃavem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtË che di legger sÃadona, non spermentar con lÃantico avversaro,
ma libera da lui che sà la sprona.
Questà ultima preghiera, segnor caro, gi⡠non si fa per noi, chà non bisogna, ma per color che dietro a noi restaroª.
Cosà a sà e noi buona ramogna
quellà ombre orando, andavan sotto Ãl pondo, simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di lâ¡ sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote
da quei cÃhanno al voler buona radice?
Ben si deà loro atar lavar le note
che portar quinci, sà che, mondi e lievi, possano uscire a le stellate ruote.
´Deh, se giustizia e pietâ¡ vi disgrievi tosto, sà che possiate muover lÃala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inverà la scala si va piË corto; e se cÃà piË dÃun varco, quel ne Ãnsegnate che men erto cala;
chà questi che vien meco, per lo Ãncarco de la carne dÃAdamo onde si veste,
al montar sË, contra sua voglia, à parcoª.
Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cuà io seguiva, non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: ´A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E sÃio non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, chÃancor vive e non si noma, guardereà io, per veder sÃià Ãl conosco, e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato dÃun gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se Ãl nome suo giâ¡ mai fu vosco.
LÃantico sangue e lÃopere leggiadre dÃi miei maggior mi fer sà arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ognà uomo ebbi in despetto tanto avante, chÃio ne moriÃ, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, chà tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien chÃio questo peso porti per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, poi chÃio nol feà tra à vivi, qui tra à mortiª.
Ascoltando chinai in giË la faccia;
e un di lor, non questi che parlava, si torse sotto il peso che li Ãmpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.
´Oh!ª, dissà io lui, ´non seà tu Oderisi, lÃonor dÃAgobbio e lÃonor di quellà arte chÃalluminar chiamata à in Parisi?ª.
´Frateª, dissà elli, ´piË ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese;
lÃonore à tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sareà io stato sà cortese
mentre chÃio vissi, per lo gran disio de lÃeccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de lÃumane posse!
comà poco verde in su la cima dura, se non à giunta da lÃetati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sà che la fama di colui à scura.
Cosà ha tolto lÃuno a lÃaltro Guido la gloria de la lingua; e forse à nato
chi lÃuno e lÃaltro caccerâ¡ del nido.
Non à il mondan romore altro chÃun fiato di vento, chÃor vien quinci e or vien quindi, e muta nome perchà muta lato.
Che voce avrai tu piË, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ëpappoà e Ãl ëdindiÃ,
pria che passin millà anni? chÃà piË corto spazio a lÃetterno, chÃun muover di ciglia al cerchio che piË tardi in cielo à torto.
Colui che del cammin sà poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonà tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ondà era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sà comà ora à putta.
La vostra nominanza à color dÃerba, che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerbaª.
E io a lui: ´Tuo vero dir mÃincora
bona umiltâ¡, e gran tumor mÃappiani; ma chi à quei di cui tu parlavi ora?ª.
´Quelli ê, rispuose, ´Provenzan Salvani; ed à qui perchà fu presunt¸oso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito à cosà e va, sanza riposo,
poi che morÃ; cotal moneta rende
a sodisfar chi à di l⡠troppo osoª.
E io: ´Se quello spirito chÃattende, pria che si penta, lÃorlo de la vita,
qua giË dimora e qua sË non ascende,
se buona orazÃon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse, come fu la venuta lui largita?ª.
´Quando vivea piË glorÃosoª, disse, ´liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, sÃaffisse;
e lÃ, per trar lÃamico suo di pena, chÃeà sostenea ne la prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogne vena.
PiË non dirÃ, e scuro so che parlo; ma poco tempo andrâ¡, che à tuoi vicini faranno sà che tu potrai chiosarlo.
Questà opera li tolse quei confiniª.
Purgatorio â Canto XII
Di pari, come buoi che vanno a giogo, mÃandava io con quellà anima carca,
fin che Ãl sofferse il dolce pedagogo.
Ma quando disse: ´Lascia lui e varca; chà qui à buono con lÃali e coi remi, quantunque puÃ, ciascun pinger sua barcaª;
dritto sà come andar vuolsi rifeÃmi con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi.
Io mÃera mosso, e seguia volontieri
del mio maestro i passi, e amendue
gi⡠mostravam comà eravam leggeri;
ed el mi disse: ´Volgi li occhi in giËe: buon ti sarâ¡, per tranquillar la via,
veder lo letto de le piante tueª.
Come, perchà di lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel chÃelli eran pria,
onde là molte volte si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo aà pÃi dâ¡ de le calcagne;
sà vidà io lÃ, ma di miglior sembianza secondo lÃartificio, figurato
quanto per via di fuor del monte avanza.
Vedea colui che fu nobil creato
piË chÃaltra creatura, giË dal cielo folgoreggiando scender, da lÃun lato.
VedÃa BrÃareo fitto dal telo
celestÃal giacer, da lÃaltra parte, grave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra dÃi Giganti sparte.
Vedea NembrÃt a pià del gran lavoro quasi smarrito, e riguardar le genti
che Ãn Sennaâ¡r con lui superbi fuoro.
O NÃobÃ, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O SaËl, come in su la propria spada
quivi parevi morto in GelboÃ,
che poi non sentà pioggia nà rugiada!
O folle Aragne, sà vedea io te
giâ¡ mezza ragna, trista in su li stracci de lÃopera che mal per te si fÃ.
O Roboâ¡m, giâ¡ non par che minacci quivi Ãl tuo segno; ma pien di spavento nel porta un carro, sanza chÃaltri il cacci.
Mostrava ancor lo duro pavimento
come Almeon a sua madre fà caro
parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli si gittaro
sovra SennacherÃb dentro dal tempio, e come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e Ãl crudo scempio che fà Tamiri, quando disse a Ciro:
´Sangue sitisti, e io di sangue tÃempioª.
Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne, e anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troia in cenere e in caverne;
o IlÃÃn, come te basso e vile
mostrava il segno che là si discerne!
Qual di pennel fu maestro o di stile
che ritraesse lÃombre e à tratti chÃivi mirar farieno uno ingegno sottile?
Morti li morti e i vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero, quantà io calcai, fin che chinato givi.
Or superbite, e via col viso altero,
figliuoli dÃEva, e non chinate il volto sà che veggiate il vostro mal sentero!
PiË era giâ¡ per noi del monte vÃlto e del cammin del sole assai piË speso
che non stimava lÃanimo non sciolto,
quando colui che sempre innanzi atteso andava, cominciÃ: ´Drizza la testa;
non à piË tempo di gir sà sospeso.
Vedi colâ¡ un angel che sÃappresta
per venir verso noi; vedi che torna dal servigio del dà lÃancella sesta.
Di reverenza il viso e li atti addorna, sà che i diletti lo ÃnvÃarci in suso; pensa che questo dà mai non raggiorna!ª.
Io era ben del suo ammonir uso
pur di non perder tempo, sà che Ãn quella materia non potea parlarmi chiuso.
A noi venÃa la creatura bella,
biancovestito e ne la faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Le braccia aperse, e indi aperse lÃale; disse: ´Venite: qui son presso i gradi, e agevolemente omai si sale.
A questo invito vegnon molto radi:
o gente umana, per volar sË nata,
perchà a poco vento cosà cadi?ª.
Menocci ove la roccia era tagliata;
quivi mi battà lÃali per la fronte; poi mi promise sicura lÃandata.
Come a man destra, per salire al monte dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte,
si rompe del montar lÃardita foga
per le scalee che si fero ad etade
chÃera sicuro il quaderno e la doga;
cosà sÃallenta la ripa che cade
quivi ben ratta da lÃaltro girone; ma quinci e quindi lÃalta pietra rade.
Noi volgendo ivi le nostre persone,
ëBeati pauperes spiritu!à voci
cantaron sÃ, che nol diria sermone.
Ahi quanto son diverse quelle foci
da lÃinfernali! chà quivi per canti sÃentra, e lâ¡ giË per lamenti feroci.
Giâ¡ montavam su per li scaglion santi, ed esser mi parea troppo piË lieve
che per lo pian non mi parea davanti.
Ondà io: ´Maestro, dÃ, qual cosa greve levata sÃà da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?ª.
Rispuose: ´Quando i P che son rimasi ancor nel volto tuo presso che stinti,
saranno, comà à lÃun, del tutto rasi,
fier li tuoi pià dal buon voler sà vinti, che non pur non fatica sentiranno,
ma fia diletto loro esser sË pintiª.
Allor fecà io come color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa, se non che à cenni altrui sospecciar fanno;
per che la mano ad accertar sÃaiuta, e cerca e truova e quello officio adempie che non si puà fornir per la veduta;
e con le dita de la destra scempie
trovai pur sei le lettere che Ãncise quel da le chiavi a me sovra le tempie:
a che guardando, il mio duca sorrise.
Purgatorio â Canto XIII
Noi eravamo al sommo de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che salendo altrui dismala.
Ivi cosà una cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia; se non che lÃarco suo piË tosto piega.
Ombra non là à nà segno che si paia: parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia.
´Se qui per dimandar gente sÃaspettaª, ragionava il poeta, ´io temo forse
che troppo avrâ¡ dÃindugio nostra elettaª.
Poi fisamente al sole li occhi porse; fece del destro lato a muover centro,
e la sinistra parte di sà torse.
´O dolce lume a cui fidanza ià entro per lo novo cammin, tu ne conduciª,
dicea, ´come condur si vuol quincà entro.
Tu scaldi il mondo, tu sovrà esso luci; sÃaltra ragione in contrario non ponta, esser dien sempre li tuoi raggi duciª.
Quanto di qua per un migliaio si conta, tanto di lâ¡ eravam noi giâ¡ iti,
con poco tempo, per la voglia pronta;
e verso noi volar furon sentiti,
non perà visti, spiriti parlando
a la mensa dÃamor cortesi inviti.
La prima voce che passà volando
ëVinum non habentà altamente disse, e dietro a noi lÃandà reÃterando.
E prima che del tutto non si udisse
per allungarsi, unÃaltra ëIà sono Oresteà passà gridando, e anco non sÃaffisse.
´Oh!ª, dissà io, ´padre, che voci son queste?ª. E comà io domandai, ecco la terza
dicendo: ëAmate da cui male avesteÃ.
E Ãl buon maestro: ´Questo cinghio sferza la colpa de la invidia, e perà sono
tratte dÃamor le corde de la ferza.
Lo fren vuol esser del contrario suono; credo che lÃudirai, per mio avviso,
prima che giunghi al passo del perdono.
Ma ficca li occhi per lÃaere ben fiso, e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
e ciascun à lungo la grotta assisoª.
Allora piË che prima li occhi apersi; guardaÃmi innanzi, e vidi ombre con manti al color de la pietra non diversi.
E poi che fummo un poco piË avanti,
udia gridar: ëMaria, Ãra per noiÃ: gridar ëMicheleà e ëPietroà e ëTutti santiÃ.
Non credo che per terra vada ancoi
omo sà duro, che non fosse punto
per compassion di quel chÃià vidi poi;
chÃ, quando fui sà presso di lor giunto, che li atti loro a me venivan certi,
per li occhi fui di grave dolor munto.
Di vil ciliccio mi parean coperti,
e lÃun sofferia lÃaltro con la spalla, e tutti da la ripa eran sofferti.
Cosà li ciechi a cui la roba falla,
stanno aà perdoni a chieder lor bisogna, e lÃuno il capo sopra lÃaltro avvalla,
perchà Ãn altrui pietâ¡ tosto si pogna, non pur per lo sonar de le parole,
ma per la vista che non meno agogna.
E come a li orbi non approda il sole, cosà a lÃombre quivi, ondà io parlo ora, luce del ciel di sà largir non vole;
chà a tutti un fil di ferro i cigli fÃra e cusce sÃ, come a sparvier selvaggio
si fa perà che queto non dimora.
A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto:
per chÃio mi volsi al mio consiglio saggio.
Ben sapevà ei che volea dir lo muto; e perà non attese mia dimanda,
ma disse: ´Parla, e sie breve e argutoª.
Virgilio mi venÃa da quella banda
de la cornice onde cader si puote,
perchà da nulla sponda sÃinghirlanda;
da lÃaltra parte mÃeran le divote
ombre, che per lÃorribile costura
premevan sÃ, che bagnavan le gote.
Volsimi a loro e: ´O gente sicuraª, incominciai, ´di veder lÃalto lume
che Ãl disio vostro solo ha in sua cura,
se tosto grazia resolva le schiume
di vostra coscÃenza sà che chiaro per essa scenda de la mente il fiume,
ditemi, chà mi fia grazioso e caro,
sÃanima à qui tra voi che sia latina; e forse lei sarâ¡ buon sÃià lÃapparoª.
´O frate mio, ciascuna à cittadina
dÃuna vera cittâ¡; ma tu vuoà dire che vivesse in Italia peregrinaª.
Questo mi parve per risposta udire
piË innanzi alquanto che lâ¡ dovà io stava, ondà io mi feci ancor piË lâ¡ sentire.
Tra lÃaltre vidi unÃombra chÃaspettava in vista; e se volesse alcun dir ëCome?Ã, lo mento a guisa dÃorbo in sË levava.
´Spirtoª, dissà io, ´che per salir ti dome, se tu seà quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nomeª.
´Io fui saneseª, rispuose, ´e con questi altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sà ne presti.
Savia non fui, avvegna che SapÃa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni piË lieta assai che di ventura mia.
E perchà tu non creda chÃio tÃinganni, odi sÃià fui, comà io ti dico, folle, giâ¡ discendendo lÃarco dÃi miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti coà loro avversari, e io pregava Iddio di quel chÃeà volle.
Rotti fuor quivi e vÃlti ne li amari passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto chÃio volsi in sË lÃardita faccia, gridando a Dio: ìOmai piË non ti temo!î, come fà Ãl merlo per poca bonaccia.
Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo,
se cià non fosse, chÃa memoria mÃebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe.
Ma tu chi seÃ, che nostre condizioni vai dimandando, e porti li occhi sciolti, sà comà io credo, e spirando ragioni?ª.
´Li occhiª, dissà io, ´mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, chà poca à lÃoffesa fatta per esser con invidia vÃlti.
Troppa à piË la paura ondà à sospesa lÃanima mia del tormento di sotto,
che giâ¡ lo Ãncarco di lâ¡ giË mi pesaª.
Ed ella a me: ´Chi tÃha dunque condotto qua sË tra noi, se giË ritornar credi?ª. E io: ´Costui chÃà meco e non fa motto.
E vivo sono; e perà mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuoà chÃià mova di lâ¡ per te ancor li mortai piediª.
´Oh, questa à a udir sà cosa nuovaª, rispuose, ´che gran segno à che Dio tÃami; perà col priego tuo talor mi giova.
E cheggioti, per quel che tu piË brami, se mai calchi la terra di Toscana,
che aà miei propinqui tu ben mi rinfami.
Tu li vedrai tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli piË di speranza chÃa trovar la Diana;
ma piË vi perderanno li ammiragliª.
Purgatorio â Canto XIV
´Chi à costui che Ãl nostro monte cerchia prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?ª.
´Non so chi sia, ma so chÃeà non à solo; domandal tu che piË li tÃavvicini,
e dolcemente, sà che parli, accoÃloª.
Cosà due spirti, lÃuno a lÃaltro chini, ragionavan di me ivi a man dritta;
poi fer li visi, per dirmi, supini;
e disse lÃuno: ´O anima che fitta
nel corpo ancora inverà lo ciel ten vai, per carit⡠ne consola e ne ditta
onde vieni e chi seÃ; chà tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu piË maiª.
E io: ´Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovrà esso rechà io questa persona: dirvi chÃià sia, saria parlare indarno, chà Ãl nome mio ancor molto non suonaª.
´Se ben lo Ãntendimento tuo accarno con lo Ãntellettoª, allora mi rispuose quei che diceva pria, ´tu parli dÃArnoª.
E lÃaltro disse lui: ´Perchà nascose questi il vocabol di quella riviera,
pur comà om fa de lÃorribili cose?ª.
E lÃombra che di cià domandata era, si sdebità cosÃ: ´Non so; ma degno
ben à che Ãl nome di tal valle pÃra;
chà dal principio suo, ovà à sà pregno lÃalpestro monte ondà à tronco Peloro, che Ãn pochi luoghi passa oltra quel segno,
infin lâ¡ Ãve si rende per ristoro
di quel che Ãl ciel de la marina asciuga, ondà hanno i fiumi cià che va con loro,
vertË cosà per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga:
ondà hanno sà mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, piË degni di galle che dÃaltro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi piË che non chiede lor possa, e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e quantà ella piË Ãngrossa, tanto piË trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per piË pelaghi cupi,
trova le volpi sà piene di froda,
che non temono ingegno che le occËpi.
Nà lascerà di dir perchà altri mÃoda; e buon sarâ¡ costui, sÃancor sÃammenta di cià che vero spirto mi disnoda.
Io veggio tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva; molti di vita e sà di pregio priva.
Sanguinoso esce de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni ne lo stato primaio non si rinselvaª.
Comà a lÃannunzio di dogliosi danni si turba il viso di colui chÃascolta,
da qual che parte il periglio lÃassanni,
cosà vidà io lÃaltrà anima, che volta stava a udir, turbarsi e farsi trista,
poi chÃebbe la parola a sà raccolta.
Lo dir de lÃuna e de lÃaltra la vista mi fer voglioso di saper lor nomi,
e dimanda ne fei con prieghi mista;
per che lo spirto che di pria parlÃmi ricominciÃ: ´Tu vuoà chÃio mi deduca nel fare a te cià che tu far non vuoÃmi.
Ma da che Dio in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarà scarso; perà sappi chÃio fui Guido del Duca.
Fu il sangue mio dÃinvidia sà rÃarso, che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto mÃavresti di livore sparso.
Di mia semente cotal paglia mieto;
o gente umana, perchà poni Ãl core lâ¡ Ãvà à mestier di consorte divieto?
Questi à Rinier; questi à Ãl pregio e lÃonore de la casa da Calboli, ove nullo
fatto sÃÃ reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue à fatto brullo, tra Ãl Po e Ãl monte e la marina e Ãl Reno, del ben richesto al vero e al trastullo;
chà dentro a questi termini à ripieno di venenosi sterpi, sà che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
Ovà à Ãl buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
verga gentil di picciola gramigna?
Non ti maravigliar sÃio piango, Tosco, quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin dÃAzzo che vivette nosco,
Federigo Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
(e lÃuna gente e lÃaltra à diretata),
le donne e à cavalier, li affanni e li agi che ne Ãnvogliava amore e cortesia
l⡠dove i cuor son fatti sà malvagi.
O Bretinoro, chà non fuggi via,
poi che gita se nÃÃ la tua famiglia e molta gente per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, che di figliar tai conti piË sÃimpiglia.
Ben faranno i Pagan, da che Ãl demonio lor sen girâ¡; ma non perà che puro
giâ¡ mai rimagna dÃessi testimonio.
O Ugolin deà Fantolin, sicuro
à Ãl nome tuo, da che piË non sÃaspetta chi far lo possa, tralignando, scuro.
Ma va via, Tosco, omai; chÃor mi diletta troppo di pianger piË che di parlare,
sà mÃha nostra ragion la mente strettaª.
Noi sapavam che quellà anime care
ci sentivano andar; perÃ, tacendo, facÃan noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti soli procedendo,
folgore parve quando lÃaere fende, voce che giunse di contra dicendo:
ëAnciderammi qualunque mÃapprendeÃ; e fuggà come tuon che si dilegua,
se sËbito la nuvola scoscende.
Come da lei lÃudir nostro ebbe triegua, ed ecco lÃaltra con sà gran fracasso,
che somiglià tonar che tosto segua:
´Io sono Aglauro che divenni sassoª; e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non innanzi, il passo.
Giâ¡ era lÃaura dÃogne parte queta; ed el mi disse: ´Quel fu Ãl duro camo
che dovria lÃuom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete lÃesca, sà che lÃamo de lÃantico avversaro a sà vi tira;
e perà poco val freno o richiamo.
Chiamavi Ãl cielo e Ãntorno vi si gira, mostrandovi le sue bellezze etterne,
e lÃocchio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerneª.
Purgatorio â Canto XV
Quanto tra lÃultimar de lÃora terza e Ãl principio del dà par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva gi⡠inverà la sera
essere al sol del suo corso rimaso; vespero lâ¡, e qui mezza notte era.
E i raggi ne ferien per mezzo Ãl naso, perchà per noi girato era sà Ãl monte, che giâ¡ dritti andavamo inverà lÃoccaso,
quandà io sentià a me gravar la fronte a lo splendore assai piË che di prima,
e stupor mÃeran le cose non conte;
ondà io levai le mani inverà la cima de le mie ciglia, e fecimi Ãl solecchio, che del soverchio visibile lima.
Come quando da lÃacqua o da lo specchio salta lo raggio a lÃopposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta,
sà come mostra esperÃenza e arte;
cosà mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.
´Che à quel, dolce padre, a che non posso schermar lo viso tanto che mi vagliaª,
dissà io, ´e pare inverà noi esser mosso?ª.
´Non ti maravigliar sÃancor tÃabbaglia la famiglia del cieloª, a me rispuose:
´messo à che viene ad invitar chÃom saglia.
Tosto sarâ¡ chÃa veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuoseª.
Poi giunti fummo a lÃangel benedetto, con lieta voce disse: ´Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri erettoª.
Noi montavam, gi⡠partiti di linci, e ëBeati misericordes!à fue
cantato retro, e ëGodi tu che vinci!Ã.
Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando, prode acquistar ne le parole sue;
e dirizzaÃmi a lui sà dimandando:
´Che volse dir lo spirto di Romagna, e ëdivietoà e ëconsorteà menzionando?ª.
Per chÃelli a me: ´Di sua maggior magagna conosce il danno; e perà non sÃammiri
se ne riprende perchà men si piagna.
Perchà sÃappuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco aà sospiri.
Ma se lÃamor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro, non vi sarebbe al petto quella tema;
chÃ, per quanti si dice piË là ënostroÃ, tanto possiede piË di ben ciascuno,
e piË di caritate arde in quel chiostroª.
´Io son dÃesser contento piË digiunoª, dissà io, ´che se mi fosse pria taciuto, e piË di dubbio ne la mente aduno.
Comà esser puote chÃun ben, distributo in piË posseditor, faccia piË ricchi
di sà che se da pochi à posseduto?ª.
Ed elli a me: ´Perà che tu rificchi la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e ineffabil bene
che lâ¡ sË Ã, cosà corre ad amore comà a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dâ¡ quanto trova dÃardore; sà che, quantunque caritâ¡ si stende,
cresce sovrà essa lÃetterno valore.
E quanta gente piË lâ¡ sË sÃintende, piË vÃÃ da bene amare, e piË vi sÃama, e come specchio lÃuno a lÃaltro rende.
E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente ti torr⡠questa e ciascunà altra brama.
Procaccia pur che tosto sieno spente, come son gi⡠le due, le cinque piaghe, che si richiudon per esser dolenteª.
Comà io voleva dicer ëTu mÃappagheÃ, vidimi giunto in su lÃaltro girone,
sà che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in una visÃone
estatica di sËbito esser tratto,
e vedere in un tempio piË persone;
e una donna, in su lÃentrar, con atto dolce di madre dicer: ´Figliuol mio,
perchà hai tu cosà verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamoª. E come qui si tacque, cià che pareva prima, dispario.
Indi mÃapparve unÃaltra con quellà acque giË per le gote che Ãl dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: ´Se tu seà sire de la villa
del cui nome neà dÃi fu tanta lite, e onde ogne scÃenza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
chÃabbracciar nostra figlia, o Pisistrâ¡toª. E Ãl segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con viso temperato:
´Che farem noi a chi mal ne disira, se quei che ci ama à per noi condannato?ª,
Poi vidi genti accese in foco dÃira
con pietre un giovinetto ancider, forte gridando a sà pur: ´Martira, martira!ª.
E lui vedea chinarsi, per la morte
che lÃaggravava giâ¡, inverà la terra, ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a lÃalto Sire, in tanta guerra, che perdonasse aà suoi persecutori,
con quello aspetto che pietâ¡ diserra.
Quando lÃanima mia tornà di fori
a le cose che son fuor di lei vere, io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo duca mio, che mi potea vedere
far sà comà om che dal sonno si slega, disse: ´Che hai che non ti puoi tenere,
ma seà venuto piË che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte, a guisa di cui vino o sonno piega?ª.
´O dolce padre mio, se tu mÃascolte, io ti dirê, dissà io, ´cià che mÃapparve quando le gambe mi furon sà tolteª.
Ed ei: ´Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse le tue cogitazion, quantunque parve.
Cià che vedesti fu perchà non scuse dÃaprir lo core a lÃacque de la pace
che da lÃetterno fonte son diffuse.
Non dimandai ìChe hai?î per quel che face chi guarda pur con lÃocchio che non vede, quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per darti forza al piede: cosà frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riedeª.
Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
nà da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse li occhi e lÃaere puro.
Purgatorio â Canto XVI
Buio dÃinferno e di notte privata
dÃogne pianeto, sotto pover cielo, quantà esser puà di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sà grosso velo
come quel fummo chÃivi ci coperse, nà a sentir di cosà aspro pelo,
che lÃocchio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida
mi sÃaccostà e lÃomero mÃofferse.
SÃ come cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che Ãl molesti, o forse ancida,
mÃandava io per lÃaere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva
pur: ´Guarda che da me tu non sia mozzoª.
Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
lÃAgnel di Dio che le peccata leva.
Pur ëAgnus Deià eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo,
sà che parea tra esse ogne concordia.
´Quei sono spirti, maestro, chÃià odo?ª, dissà io. Ed elli a me: ´Tu vero apprendi, e dÃiracundia van solvendo il nodoª.
´Or tu chi seà che Ãl nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?ª.
Cosà per una voce detto fue;
onde Ãl maestro mio disse: ´Rispondi, e domanda se quinci si va sËeª.
E io: ´O creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece, maraviglia udirai, se mi secondiª.
´Io ti seguiterà quanto mi leceª,
rispuose; ´e se veder fummo non lascia, lÃudir ci terrâ¡ giunti in quella veceª.
Allora incominciai: ´Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per lÃinfernale ambascia.
E se Dio mÃha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol chÃià veggia la sua corte per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi sÃià vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorteª.
´Lombardo fui, e fuà chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso lÃarco.
Per montar sË dirittamente vaiª.
Cosà rispuose, e soggiunse: ´Ià ti prego che per me prieghi quando sË saraiª.
E io a lui: ´Per fede mi ti lego
di far cià che mi chiedi; ma io scoppio dentro ad un dubbio, sÃio non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora à fatto doppio ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ovà io lÃaccoppio.
Lo mondo à ben cosà tutto diserto
dÃogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che mÃaddite la cagione,
sà chÃià la veggia e chÃià la mostri altrui; chà nel cielo uno, e un qua giË la poneª.
Alto sospir, che duolo strinse in ´uhi!ª, mise fuor prima; e poi cominciÃ: ´Frate, lo mondo à cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate.
Se cosà fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto chÃià Ãl dica, lume vÃà dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che Ãl ciel non ha in sua cura.
PerÃ, se Ãl mondo presente disvia,
in voi à la cagione, in voi si cheggia; e io te ne sarà or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia,
lÃanima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a cià che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore; quivi sÃinganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, perà che Ãl pastor che procede, rugumar puÃ, ma non ha lÃunghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ondà ella à ghiotta, di quel si pasce, e piË oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta
à la cagion che Ãl mondo ha fatto reo, e non natura che Ãn voi sia corrotta.
Soleva Roma, che Ãl buon mondo feo,
due soli aver, che lÃuna e lÃaltra strada facean vedere, e del mondo e di Deo.
LÃun lÃaltro ha spento; ed à giunta la spada col pasturale, e lÃun con lÃaltro insieme per viva forza mal convien che vada;
perà che, giunti, lÃun lÃaltro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga,
chÃognà erba si conosce per lo seme.
In sul paese chÃAdice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or puà sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna di ragionar coi buoni o dÃappressarsi.
Ben vÃÃn tre vecchi ancora in cui rampogna lÃantica etâ¡ la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e Ãl buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
DÃ oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sà due reggimenti, cade nel fango, e sà brutta e la somaª.
´O Marco mioª, dissà io, ´bene argomenti; e or discerno perchà dal retaggio
li figli di Levà furono essenti.
Ma qual Gherardo à quel che tu per saggio dià chÃà rimaso de la gente spenta,
in rimprovÃro del secol selvaggio?ª.
´O tuo parlar mÃinganna, o el mi tentaª, rispuose a me; ´chÃ, parlandomi tosco, par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
sÃio nol togliessi da sua figlia Gaia. Dio sia con voi, chà piË non vegno vosco.
Vedi lÃalbor che per lo fummo raia
giâ¡ biancheggiare, e me convien partirmi (lÃangelo à ivi) prima chÃio li paiaª.
Cosà tornÃ, e piË non volle udirmi.
Purgatorio â Canto XVII
Ricorditi, lettor, se mai ne lÃalpe
ti colse nebbia per la qual vedessi non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder comà io rividi lo sole in pria, che gi⡠nel corcar era.
SÃ, pareggiando i miei coà passi fidi del mio maestro, uscià fuor di tal nube ai raggi morti giâ¡ neà bassi lidi.
O imaginativa che ne rube
talvolta sà di fuor, chÃom non sÃaccorge perchà dintorno suonin mille tube,
chi move te, se Ãl senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel sÃinforma,
per sà o per voler che giË lo scorge.
De lÃempiezza di lei che mutà forma ne lÃuccel chÃa cantar piË si diletta, ne lÃimagine mia apparve lÃorma;
e qui fu la mia mente sà ristretta
dentro da sÃ, che di fuor non venÃa cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a lÃalta fantasia
un crucifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si moria;
intorno ad esso era il grande Ass¸ero, EstÃr sua sposa e Ãl giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far cosà intero.
E come questa imagine rompeo
sà per sà stessa, a guisa dÃuna bulla cui manca lÃacqua sotto qual si feo,
surse in mia visÃone una fanciulla
piangendo forte, e dicea: ´O regina, perchà per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa tÃhai per non perder Lavina;
or mÃhai perduta! Io son essa che lutto, madre, a la tua pria chÃa lÃaltrui ruinaª.
Come si frange il sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto;
cosà lÃimaginar mio cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse, maggior assai che quel chÃÃ in nostro uso.
Ià mi volgea per veder ovà io fosse, quando una voce disse ´Qui si montaª,
che da ogne altro intento mi rimosse;
e fece la mia voglia tanto pronta
di riguardar chi era che parlava,
che mai non posa, se non si raffronta.
Ma come al sol che nostra vista grava e per soverchio sua figura vela,
cosà la mia virtË quivi mancava.
´Questo à divino spirito, che ne la via da ir sË ne drizza sanza prego,
e col suo lume sà medesmo cela.
Sà fa con noi, come lÃuom si fa sego; chà quale aspetta prego e lÃuopo vede, malignamente giâ¡ si mette al nego.
Or accordiamo a tanto invito il piede; procacciam di salir pria che sÃabbui,
chà poi non si poria, se Ãl dà non riedeª.
Cosà disse il mio duca, e io con lui volgemmo i nostri passi ad una scala;
e tosto chÃio al primo grado fui,
sentiÃmi presso quasi un muover dÃala e ventarmi nel viso e dir: ëBeati
pacifici, che son sanzà ira mala!Ã.
Giâ¡ eran sovra noi tanto levati
li ultimi raggi che la notte segue, che le stelle apparivan da piË lati.
ëO virtË mia, perchà sà ti dilegue?Ã, fra me stesso dicea, chà mi sentiva
la possa de le gambe posta in triegue.
Noi eravam dove piË non saliva
la scala sË, ed eravamo affissi,
pur come nave chÃa la piaggia arriva.
E io attesi un poco, sÃio udissi
alcuna cosa nel novo girone;
poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
´Dolce mio padre, dÃ, quale offensione si purga qui nel giro dove semo?
Se i pià si stanno, non stea tuo sermoneª.
Ed elli a me: ´LÃamor del bene, scemo del suo dover, quiritta si ristora;
qui si ribatte il mal tardato remo.
Ma perchà piË aperto intendi ancora, volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimoraª.
´Nà creator nà creatura maiª,
comincià el, ´figliuol, fu sanza amore, o naturale o dÃanimo; e tu Ãl sai.
Lo naturale à sempre sanza errore,
ma lÃaltro puote errar per malo obietto o per troppo o per poco di vigore.
Mentre chÃelli à nel primo ben diretto, e neà secondi sà stesso misura,
esser non puà cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con piË cura o con men che non dee corre nel bene,
contra Ãl fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender puoi chÃesser convene amor sementa in voi dÃogne virtute
e dÃogne operazion che merta pene.
Or, perchà mai non puà da la salute amor del suo subietto volger viso,
da lÃodio proprio son le cose tute;
e perchà intender non si puà diviso, e per sà stante, alcuno esser dal primo, da quello odiare ogne effetto à deciso.
Resta, se dividendo bene stimo,
che Ãl mal che sÃama à del prossimo; ed esso amor nasce in tre modi in vostro limo.
» chi, per esser suo vicin soppresso, spera eccellenza, e sol per questo brama chÃel sia di sua grandezza in basso messo;
à chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perchà altri sormonti, onde sÃattrista sà che Ãl contrario ama;
ed à chi per ingiuria par chÃaonti, sà che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che Ãl male altrui impronti.
Questo triforme amor qua giË di sotto si piange: or voà che tu de lÃaltro intende, che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti lÃanimo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende.
Se lento amore a lui veder vi tira
o a lui acquistar, questa cornice,
dopo giusto penter, ve ne martira.
Altro ben à che non fa lÃuom felice; non à felicitâ¡, non à la buona
essenza, dÃogne ben frutto e radice.
LÃamor chÃad esso troppo sÃabbandona, di sovrà a noi si piange per tre cerchi; ma come tripartito si ragiona,
tacciolo, accià che tu per te ne cerchiª.
Purgatorio â Canto XVIII
Posto avea fine al suo ragionamento
lÃalto dottore, e attento guardava ne la mia vista sÃio parea contento;
e io, cui nova sete ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: ëForse lo troppo dimandar chÃio fo li gravaÃ.
Ma quel padre verace, che sÃaccorse
del timido voler che non sÃapriva, parlando, di parlare ardir mi porse.
Ondà io: ´Maestro, il mio veder sÃavviva sà nel tuo lume, chÃio discerno chiaro quanto la tua ragion parta o descriva.
Perà ti prego, dolce padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci ogne buono operare e Ãl suo contraroª.
´Drizzaª, disse, ´verà me lÃagute luci de lo Ãntelletto, e fieti manifesto
lÃerror deà ciechi che si fanno duci.
LÃanimo, chÃà creato ad amar presto, ad ogne cosa à mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto à desto.
Vostra apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, sà che lÃanimo ad essa volger face;
e se, rivolto, inverà di lei si piega, quel piegare à amor, quellà à natura
che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come Ãl foco movesi in altura
per la sua forma chÃÃ nata a salire lâ¡ dove piË in sua matera dura,
cosà lÃanimo preso entra in disire, chÃà moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.
Or ti puote apparer quantà à nascosa la veritate a la gente chÃavvera
ciascun amore in sà laudabil cosa;
perà che forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno à buono, ancor che buona sia la ceraª.
´Le tue parole e Ãl mio seguace ingegnoª, rispuosà io lui, ´mÃhanno amor discoverto, ma cià mÃha fatto di dubbiar piË pregno;
chÃ, sÃamore à di fuori a noi offerto e lÃanima non va con altro piede,
se dritta o torta va, non à suo mertoª.
Ed elli a me: ´Quanto ragion qui vede, dir ti possà io; da indi in lâ¡ tÃaspetta pur a Beatrice, chÃà opra di fede.
Ogne forma sustanzÃal, che setta
à da matera ed à con lei unita,
specifica vertute ha in sà colletta,
la qual sanza operar non à sentita,
nà si dimostra mai che per effetto, come per verdi fronde in pianta vita.
PerÃ, lâ¡ onde vegna lo Ãntelletto de le prime notizie, omo non sape,
e deà primi appetibili lÃaffetto,
che sono in voi sà come studio in ape di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perchà a questa ognà altra si raccoglia, innata vÃà la virtË che consiglia,
e de lÃassenso deà tener la soglia.
Questà à Ãl principio lâ¡ onde si piglia ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo, sÃaccorser dÃesta innata libertate;
perà moralit⡠lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi sÃaccende, di ritenerlo à in voi la podestate.
La nobile virtË Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e perà guarda che lÃabbi a mente, sÃa parlar ten prendeª.
La luna, quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer piË rade, fatta comà un secchion che tuttor arda;
e correa contro Ãl ciel per quelle strade che Ãl sole infiamma allor che quel da Roma tra à Sardi e à Corsi il vede quando cade.
E quellà ombra gentil per cui si noma Pietola piË che villa mantoana,
del mio carcar diposta avea la soma;
per chÃio, che la ragione aperta e piana sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava comà om che sonnolento vana.
Ma questa sonnolenza mi fu tolta
subitamente da gente che dopo
le nostre spalle a noi era giâ¡ volta.
E quale Ismeno giâ¡ vide e Asopo
lungo di sà di notte furia e calca, pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron suo passo falca, per quel chÃio vidi di color, venendo,
cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovrà a noi, perchà correndo si movea tutta quella turba magna;
e due dinanzi gridavan piangendo:
´Maria corse con fretta a la montagna; e Cesare, per soggiogare Ilerda,
punse Marsilia e poi corse in Ispagnaª.
´Ratto, ratto, che Ãl tempo non si perda per poco amorª, gridavan li altri appresso, ´che studio di ben far grazia rinverdaª.
´O gente in cui fervore aguto adesso ricompie forse negligenza e indugio
da voi per tepidezza in ben far messo,
questi che vive, e certo ià non vi bugio, vuole andar sË, pur che Ãl sol ne riluca; perà ne dite ondà à presso il pertugioª.
Parole furon queste del mio duca;
e un di quelli spirti disse: ´Vieni di retro a noi, e troverai la buca.
Noi siam di voglia a muoverci sà pieni, che restar non potem; perà perdona,
se villania nostra giustizia tieni.
Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo Ãmperio del buon Barbarossa, di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha giâ¡ lÃun pià dentro la fossa, che tosto piangerâ¡ quel monastero,
e tristo fia dÃavere avuta possa;
perchà suo figlio, mal del corpo intero, e de la mente peggio, e che mal nacque,
ha posto in loco di suo pastor veroª.
Io non so se piË disse o sÃei si tacque, tantà era giâ¡ di lâ¡ da noi trascorso; ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei che mÃera ad ogne uopo soccorso disse: ´Volgiti qua: vedine due
venir dando a lÃaccidÃa di morsoª.