Poscia vidà io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verr⡠sempre, deà gelati guazzi.
E mentre chÃandavamo inverà lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne lÃetterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi Ãl pià nel viso ad una.
Piangendo mi sgridÃ: ´Perchà mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perchà mi moleste?ª.
E io: ´Maestro mio, or qui mÃaspetta, sà chÃio esca dÃun dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, frettaª.
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
´Qual seà tu che cosà rampogni altrui?ª.
´Or tu chi seà che vai per lÃAntenora, percotendoª, rispuose, ´altrui le gote, sà che, se fossi vivo, troppo fora?ª.
´Vivo son io, e caro esser ti puoteª, fu mia risposta, ´se dimandi fama,
chÃio metta il nome tuo tra lÃaltre noteª.
Ed elli a me: ´Del contrario ho io brama. LÃvati quinci e non mi dar piË lagna,
chà mal sai lusingar per questa lama!ª.
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: ´El converrâ¡ che tu ti nomi, o che capel qui sË non ti rimagnaª.
Ondà elli a me: ´Perchà tu mi dischiomi, nà ti dirà chÃio sia, nà mosterrolti, se mille fiate in sul capo mi tomiª.
Io avea giâ¡ i capelli in mano avvolti, e tratti glienà avea piË dÃuna ciocca, latrando lui con li occhi in giË raccolti,
quando un altro gridÃ: ´Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?ª.
´Omaiª, dissà io, ´non voà che piË favelle, malvagio traditor; chÃa la tua onta
io porterà di te vere novelleª.
´Va viaª, rispuose, ´e cià che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel chÃebbe or cosà la lingua pronta.
El piange qui lÃargento deà Franceschi: ìIo vidiî, potrai dir, ìquel da Duera lâ¡ dove i peccatori stanno freschiî.
Se fossi domandato ìAltri chi vÃera?î, tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segà Fiorenza la gorgiera.
Gianni deà Soldanier credo che sia
piË lâ¡ con Ganellone e Tebaldello, chÃaprà Faenza quando si dormiaª.
Noi eravam partiti giâ¡ da ello,
chÃio vidi due ghiacciati in una buca, sà che lÃun capo a lÃaltro era cappello;
e come Ãl pan per fame si manduca,
cosà Ãl sovran li denti a lÃaltro pose lâ¡ Ãve Ãl cervel sÃaggiugne con la nuca:
non altrimenti TidÃo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e lÃaltre cose.
´O tu che mostri per sà bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi Ãl perchê, dissà io, ´per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con chÃio parlo non si seccaª.
Inferno â Canto XXXIII
La bocca sollevà dal fiero pasto
quel peccator, forbendola aà capelli del capo chÃelli avea di retro guasto.
Poi cominciÃ: ´Tu vuoà chÃio rinovelli disperato dolor che Ãl cor mi preme
giâ¡ pur pensando, pria chÃio ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor chÃià rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu seà nà per che modo venuto seà qua giË; ma fiorentino
mi sembri veramente quandà io tÃodo.
Tu dei saper chÃià fui conte Ugolino, e questi à lÃarcivescovo Ruggieri:
or ti dirà perchà i son tal vicino.
Che per lÃeffetto deà suoà mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non à mestieri;
perà quel che non puoi avere inteso, cioà come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai sÃeà mÃha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha Ãl titol de la fame, e che conviene ancor chÃaltrui si chiuda,
mÃavea mostrato per lo suo forame
piË lune giâ¡, quandà io feci Ãl mal sonno che del futuro mi squarcià Ãl velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e à lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studÃose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi sÃavea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e à figli, e con lÃagute scane mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger sentià fra Ãl sonno i miei figliuoli chÃeran con meco, e dimandar del pane.
Ben seà crudel, se tu giâ¡ non ti duoli pensando cià che Ãl mio cor sÃannunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?
Giâ¡ eran desti, e lÃora sÃappressava che Ãl cibo ne solÃa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io sentià chiavar lÃuscio di sotto a lÃorribile torre; ondà io guardai
nel viso aà mieà figliuoi sanza far motto.
Io non piangÃa, sà dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: ìTu guardi sÃ, padre! che hai?î.
Percià non lagrimai nà rispuosà io tutto quel giorno nà la notte appresso, infin che lÃaltro sol nel mondo uscÃo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando chÃio Ãl fessi per voglia di manicar, di sËbito levorsi
e disser: ìPadre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spogliaî.
QuetaÃmi allor per non farli piË tristi; lo dà e lÃaltro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perchà non tÃapristi?
Poscia che fummo al quarto dà venuti, Gaddo mi si gittà disteso aà piedi,
dicendo: ìPadre mio, chà non mÃaiuti?î.
Quivi morÃ; e come tu mi vedi,
vidà io cascar li tre ad uno ad uno tra Ãl quinto dà e Ãl sesto; ondà io mi diedi,
giâ¡ cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dà li chiamai, poi che fur morti. Poscia, piË che Ãl dolor, potà Ãl digiunoª.
Quandà ebbe detto ciÃ, con li occhi torti riprese Ãl teschio misero coà denti,
che furo a lÃosso, come dÃun can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese lâ¡ dove Ãl sà suona, poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce, sà chÃelli annieghi in te ogne persona!
Che se Ãl conte Ugolino aveva voce
dÃaver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea lÃetâ¡ novella,
novella Tebe, Uguiccione e Ãl Brigata e li altri due che Ãl canto suso appella.
Noi passammo oltre, lâ¡ Ãve la gelata ruvidamente unÃaltra gente fascia,
non volta in giË, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso là pianger non lascia, e Ãl duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer lÃambascia;
chà le lagrime prime fanno groppo,
e sà come visiere di cristallo,
rÃempion sotto Ãl ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sà come dÃun callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
giâ¡ mi parea sentire alquanto vento; per chÃio: ´Maestro mio, questo chi move? non à qua giË ogne vapore spento?ª.
Ondà elli a me: ´Avaccio sarai dove di cià ti farâ¡ lÃocchio la risposta, veggendo la cagion che Ãl fiato pioveª.
E un deà tristi de la fredda crosta
gridà a noi: ´O anime crudeli
tanto che data vÃÃ lÃultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sà chÃÃo sfoghi Ãl duol che Ãl cor mÃimpregna, un poco, pria che Ãl pianto si raggeliª.
Per chÃio a lui: ´Se vuoà chÃià ti sovvegna, dimmi chi seÃ, e sÃio non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegnaª.
Rispuose adunque: ´Ià son frate Alberigo; ià son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figoª.
´Ohª, dissà io lui, ´or seà tu ancor morto?ª. Ed elli a me: ´Come Ãl mio corpo stea
nel mondo sË, nulla scÃenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte lÃanima ci cade
innanzi chÃAtropÃs mossa le dea.
E perchà tu piË volentier mi rade
le ÃnvetrÃate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che lÃanima trade
come fecà Ão, il corpo suo lÃà tolto da un demonio, che poscia il governa
mentre che Ãl tempo suo tutto sia vÃlto.
Ella ruina in sà fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de lÃombra che di qua dietro mi verna.
Tu Ãl dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli à ser Branca Doria, e son piË anni poscia passati chÃel fu sà racchiusoª.
´Io credoª, dissà io lui, ´che tu mÃinganni; chà Branca Doria non morà unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panniª.
´Nel fosso s˪, dissà el, ´deà Malebranche, lâ¡ dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi lascià il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano
che Ãl tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhiª. E io non glielà apersi; e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
dÃogne costume e pien dÃogne magagna, perchà non siete voi del mondo spersi?
Chà col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito giâ¡ si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Inferno â Canto XXXIV
´Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; perà dinanzi miraª, disse Ãl maestro mio, ´se tu Ãl discerniª.
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando lÃemisperio nostro annotta, par di lungi un molin che Ãl vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, chà non là era altra grotta.
Giâ¡ era, e con paura il metto in metro, lâ¡ dove lÃombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante;
altra, comà arco, il volto aà pià rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
chÃal mio maestro piacque di mostrarmi la creatura chÃebbe il bel sembiante,
dÃinnanzi mi si tolse e fà restarmi, ´Ecco Diteª, dicendo, ´ed ecco il loco ove convien che di fortezza tÃarmiª.
Comà io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, chÃià non lo scrivo, perà chÃogne parlar sarebbe poco.
Io non morià e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, sÃhai fior dÃingegno, qual io divenni, dÃuno e dÃaltro privo.
Lo Ãmperador del doloroso regno
da mezzo Ãl petto uscia fuor de la ghiaccia; e piË con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quantà esser dee quel tutto chÃa cosà fatta parte si confaccia.
SÃel fu sà bel comà elli à ora brutto, e contra Ãl suo fattore alzà le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quandà io vidi tre facce a la sua testa! LÃuna dinanzi, e quella era vermiglia;
lÃaltrà eran due, che sÃaggiugnieno a questa sovresso Ãl mezzo di ciascuna spalla,
e sà giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di lâ¡ onde Ãl Nilo sÃavvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grandà ali, quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vidà io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sà che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto sÃaggelava.
Con sei occhi piangÃa, e per tre menti gocciava Ãl pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea coà denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sà che tre ne facea cosà dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso Ãl graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla.
´Quellà anima lâ¡ sË cÃha maggior penaª, disse Ãl maestro, ´à Giuda ScarÃotto, che Ãl capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due cÃhanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo à Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e lÃaltro à Cassio, che par sà membruto. Ma la notte risurge, e oramai
à da partir, chà tutto avem vedutoª.
Comà a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste,
e quando lÃali fuoro aperte assai,
appiglià sà a le vellute coste;
di vello in vello giË discese poscia tra Ãl folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo lâ¡ dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de lÃanche, lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ovà elli avea le zanche, e aggrappossi al pel comà om che sale,
sà che Ãn inferno ià credea tornar anche.
´Attienti ben, chà per cotali scaleª, disse Ãl maestro, ansando comà uom lasso, ´conviensi dipartir da tanto maleª.
Poi uscà fuor per lo fÃro dÃun sasso e puose me in su lÃorlo a sedere;
appresso porse a me lÃaccorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero comà io lÃavea lasciato, e vidili le gambe in sË tenere;
e sÃio divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede qual à quel punto chÃio avea passato.
´LÃvati s˪, disse Ãl maestro, ´in piede: la via à lunga e Ãl cammino à malvagio, e giâ¡ il sole a mezza terza riedeª.
Non era camminata di palagio
lâ¡ Ãvà eravam, ma natural burella chÃavea mal suolo e di lume disagio.
´Prima chÃio de lÃabisso mi divella, maestro mioª, dissà io quando fui dritto, ´a trarmi dÃerro un poco mi favella:
ovà à la ghiaccia? e questi comà à fitto sà sottosopra? e come, in sà pocà ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?ª.
Ed elli a me: ´Tu imagini ancora
dÃesser di lâ¡ dal centro, ovà io mi presi al pel del vermo reo che Ãl mondo fÃra.
Di lâ¡ fosti cotanto quantà io scesi; quandà io mi volsi, tu passasti Ãl punto al qual si traggon dÃogne parte i pesi.
E seà or sotto lÃemisperio giunto
chÃÃ contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto Ãl cui colmo consunto
fu lÃuom che nacque e visse sanza pecca; tu haà i piedi in su picciola spera
che lÃaltra faccia fa de la Giudecca.
Qui à da man, quando di l⡠à sera; e questi, che ne fà scala col pelo,
fitto à ancora sà come primà era.
Da questa parte cadde giË dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fà del mar velo,
e venne a lÃemisperio nostro; e forse per fuggir lui lascià qui loco vÃto
quella chÃappar di qua, e sË ricorseª.
Luogo à lâ¡ giË da BelzebË remoto tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono à noto
dÃun ruscelletto che quivi discende
per la buca dÃun sasso, chÃelli ha roso, col corso chÃelli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver dÃalcun riposo,
salimmo sË, el primo e io secondo,
tanto chÃià vidi de le cose belle che porta Ãl ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
PURGATORIO
Purgatorio â Canto I
Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sà mar sà crudele;
e canterà di quel secondo regno
dove lÃumano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesà resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui CalÃopà alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color dÃorÃental zaffiro,
che sÃaccoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricomincià diletto,
tosto chÃio uscià fuor de lÃaura morta che mÃavea contristati li occhi e Ãl petto.
Lo bel pianeto che dÃamar conforta
faceva tutto rider lÃorÃente,
velando i Pesci chÃerano in sua scorta.
IÃ mi volsi a man destra, e puosi mente a lÃaltro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor chÃa la prima gente.
Goder pareva Ãl ciel di lor fiammelle: oh settentrÃonal vedovo sito,
poi che privato seà di mirar quelle!
Comà io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l Ãaltro polo,
lâ¡ onde Ãl Carro giâ¡ era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che piË non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, aà suoi capelli simigliante, deà quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sà la sua faccia di lume, chÃià Ãl vedea come Ãl sol fosse davante.
´Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?ª,
dissà el, movendo quelle oneste piume.
´Chi vÃha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi dÃabisso cosà rotte?
o à mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?ª.
Lo duca mio allor mi dià di piglio,
e con parole e con mani e con cenni reverenti mi fà le gambe e Ãl ciglio.
Poscia rispuose lui: ´Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da chÃà tuo voler che piË si spieghi di nostra condizion comà ellà à vera, esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai lÃultima sera;
ma per la sua follia le fu sà presso, che molto poco tempo a volger era.
Sà comà io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non là era altra via che questa per la quale ià mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan sà sotto la tua balÃa.
Comà io lÃho tratto, saria lungo a dirti; de lÃalto scende virtË che mÃaiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertâ¡ va cercando, chÃà sà cara, come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu Ãl sai, chà non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta chÃal gran dà sarâ¡ sà chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti, chà questi vive e MinÃs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che Ãn vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporterà di te a lei,
se dÃesser mentovato lâ¡ giË degniª.
´MarzÃa piacque tanto a li occhi miei mentre chÃià fuà di lâ¡Âª, dissà elli allora, ´che quante grazie volse da me, fei.
Or che di lâ¡ dal mal fiume dimora,
piË muover non mi puÃ, per quella legge che fatta fu quando me nÃuscià fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge, come tu diÃ, non cÃÃ mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe dÃun giunco schietto e che li lavi Ãl viso, sà chÃogne sucidume quindi stinghe;
chà non si converria, lÃocchio sorpriso dÃalcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, chÃà di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo, lâ¡ giË colâ¡ dove la batte lÃonda,
porta di giunchi sovra Ãl molle limo:
nullà altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita,
perà chÃa le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita; lo sol vi mosterrâ¡, che surge omai,
prendere il monte a piË lieve salitaª.
Cosà sparÃ; e io sË mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciÃ: ´Figliuol, segui i miei passi: volgianci in dietro, chà di qua dichina questa pianura aà suoi termini bassiª.
LÃalba vinceva lÃora mattutina
che fuggia innanzi, sà che di lontano conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
comà om che torna a la perduta strada, che Ãnfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo lâ¡ Ãve la rugiada pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su lÃerbetta sparte
soavemente Ãl mio maestro pose:
ondà io, che fui accorto di sua arte,
porsi verà lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che lÃinferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sà comà altrui piacque: oh maraviglia! chà qual elli scelse
lÃumile pianta, cotal si rinacque
subitamente lâ¡ onde lÃavelse.
Purgatorio â Canto II
Giâ¡ era Ãl sole a lÃorizzonte giunto lo cui meridÃan cerchio coverchia
IerusalÃm col suo piË alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia, uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sà che le bianche e le vermiglie guance, l⡠dovà ià era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino, che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia giË nel ponente sovra Ãl suol marino,
cotal mÃapparve, sÃio ancor lo veggia, un lume per lo mar venir sà ratto,
che Ãl muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual comà io un poco ebbi ritratto lÃocchio per domandar lo duca mio,
rividil piË lucente e maggior fatto.
Poi dÃogne lato ad esso mÃappario
un non sapeva che bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui uscÃo.
Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver ali; allor che ben conobbe il galeotto,
gridÃ: ´Fa, fa che le ginocchia cali. Ecco lÃangel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di sà fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani,
sà che remo non vuol, nà altro velo che lÃali sue, tra liti sà lontani.
Vedi come lÃha dritte verso Ãl cielo, trattando lÃaere con lÃetterne penne,
che non si mutan come mortal peloª.
Poi, come piË e piË verso noi venne lÃuccel divino, piË chiaro appariva:
per che lÃocchio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva con un vasello snelletto e leggero,
tanto che lÃacqua nulla ne Ãnghiottiva.
Da poppa stava il celestial nocchiero, tal che faria beato pur descripto;
e piË di cento spirti entro sediero.
ëIn exitu Isrâ°el de AegyptoÃ
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo à poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce; ondà ei si gittar tutti in su la piaggia: ed el sen gÃ, come venne, veloce.
La turba che rimase lÃ, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti saettava il giorno
lo sol, chÃavea con le saette conte di mezzo Ãl ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzà la fronte
verà noi, dicendo a noi: ´Se voi sapete, mostratene la via di gire al monteª.
E Virgilio rispuose: ´Voi credete
forse che siamo esperti dÃesto loco; ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, per altra via, che fu sà aspra e forte, che lo salire omai ne parr⡠giocoª.
LÃanime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, chÃià era ancor vivo, maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
cosà al viso mio sÃaffisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi oblÃando dÃire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi con sà grande affetto, che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne lÃaspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che lÃombra sorrise e si ritrasse, e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse chÃio posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco sÃarrestasse.
Rispuosemi: ´Cosà comà io tÃamai
nel mortal corpo, cosà tÃamo sciolta: perà mÃarresto; ma tu perchà vai?ª.
´Casella mio, per tornar altra volta lâ¡ dovà io son, fo io questo vÃaggioª, dissà io; ´ma a te comà à tanta ora tolta?ª.
Ed elli a me: ´Nessun mÃà fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace,
piË volte mÃha negato esto passaggio;
chà di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ondà io, chÃera ora a la marina vÃlto dove lÃacqua di Tevero sÃinsala,
benignamente fuà da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta lÃala, perà che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si calaª.
E io: ´Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a lÃamoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di cià ti piaccia consolare alquanto lÃanima mia, che, con la sua persona
venendo qui, à affannata tanto!ª.
ëAmor che ne la mente mi ragionaÃ
comincià elli allor sà dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
chÃeran con lui parevan sà contenti, come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: ´Che à ciÃ, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare à questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio chÃesser non lascia a voi Dio manifestoª.
Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar lÃusato orgoglio,
se cosa appare ondà elli abbian paura, subitamente lasciano star lÃesca,
perchà assaliti son da maggior cura;
cosà vidà io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir verà la costa, comà om che va, nà sa dove rÃesca;
nà la nostra partita fu men tosta.
Purgatorio â Canto III
Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
ià mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sareà io sanza lui corso?
chi mÃavria tratto su per la montagna?
El mi parea da sà stesso rimorso:
o dignitosa coscÃenza e netta,
come tÃÃ picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che lÃonestade ad ognà atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo Ãntento rallargÃ, sà come vaga, e diedi Ãl viso mio incontrà al poggio che Ãnverso Ãl ciel piË alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, rotto mÃera dinanzi a la figura,
chÃavÃa in me deà suoi raggi lÃappoggio.
Io mi volsi dallato con paura
dÃessere abbandonato, quandà io vidi solo dinanzi a me la terra oscura;
e Ãl mio conforto: ´Perchà pur diffidi?ª, a dir mi comincià tutto rivolto;
´non credi tu me teco e chÃio ti guidi?
Vespero à giâ¡ colâ¡ dovà à sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra; Napoli lÃha, e da Brandizio à tolto.
Ora, se innanzi a me nulla sÃaombra, non ti maravigliar piË che dÃi cieli
che lÃuno a lÃaltro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la VirtË dispone
che, come fa, non vuol chÃa noi si sveli.
Matto à chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia; chÃ, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disÃar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
chÃetternalmente à dato lor per lutto:
io dico dÃAristotile e di Plato
e di moltà altriª; e qui chinà la fronte, e piË non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a pià del monte; quivi trovammo la roccia sà erta,
che Ãndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e TurbÃa la piË diserta, la piË rotta ruina à una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
´Or chi sa da qual man la costa calaª, disse Ãl maestro mio fermando Ãl passo, ´sà che possa salir chi va sanzà ala?ª.
E mentre chÃeà tenendo Ãl viso basso essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra mÃapparà una gente
dÃanime, che movieno i pià verà noi, e non pareva, sà venÃan lente.
´Levaª, dissà io, ´maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne dar⡠consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoiª.
Guardà allora, e con libero piglio
rispuose: ´Andiamo in lâ¡, chÃei vegnon piano; e tu ferma la spene, dolce figlioª.
Ancora era quel popol di lontano,
ià dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi de lÃalta ripa, e stetter fermi e stretti comà a guardar, chi va dubbiando, stassi.
´O ben finiti, o giâ¡ spiriti elettiª, Virgilio incominciÃ, ´per quella pace
chÃià credo che per voi tutti sÃaspetti,
ditene dove la montagna giace,
sà che possibil sia lÃandare in suso; chà perder tempo a chi piË sa piË spiaceª.
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e lÃaltre stanno timidette atterrando lÃocchio e Ãl muso;
e cià che fa la prima, e lÃaltre fanno, addossandosi a lei, sÃella sÃarresta,
semplici e quete, e lo Ãmperchà non sanno;
sà vidà io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne lÃandare onesta.
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto, sà che lÃombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sà in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo Ãl perchÃ, fenno altrettanto.
´Sanza vostra domanda io vi confesso che questo à corpo uman che voi vedete; per che Ãl lume del sole in terra à fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtË che da ciel vegna cerchi di soverchiar questa pareteª.
Cosà Ãl maestro; e quella gente degna ´Tornateª, disse, ´intrate innanzi dunqueª, coi dossi de le man faccendo insegna.
E un di loro incominciÃ: ´Chiunque
tu seÃ, cosà andando, volgi Ãl viso: pon mente se di lâ¡ mi vedesti unqueª.
Io mi volsi verà lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma lÃun deà cigli un colpo avea diviso.
Quandà io mi fui umilmente disdetto
dÃaverlo visto mai, el disse: ´Or vediª; e mostrommi una piaga a sommo Ãl petto.
Poi sorridendo disse: ´Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice;
ondà io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de lÃonor di Cicilia e dÃAragona, e dichi Ãl vero a lei, sÃaltro si dice.
Poscia chÃio ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bont⡠infinita ha sà gran braccia, che prende cià che si rivolge a lei.
Se Ãl pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
lÃossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo Ãl Verde, dovà eà le trasmutà a lume spento.
Per lor maladizion sà non si perde,
che non possa tornar, lÃetterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero à che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor chÃal fin si penta, star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo chÃelli à stato, trenta, in sua presunzÃon, se tal decreto
piË corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza
come mÃhai visto, e anco esto divieto;
chà qui per quei di lâ¡ molto sÃavanzaª.
Purgatorio â Canto IV
Quando per dilettanze o ver per doglie, che alcuna virtË nostra comprenda,
lÃanima bene ad essa si raccoglie,
par chÃa nulla potenza piË intenda; e questo à contra quello error che crede chÃunÃanima sovrà altra in noi sÃaccenda.
E perÃ, quando sÃode cosa o vede
che tegna forte a sà lÃanima volta, vassene Ãl tempo e lÃuom non se nÃavvede;
chÃaltra potenza à quella che lÃascolta, e altra à quella cÃha lÃanima intera: questa à quasi legata e quella à sciolta.
Di cià ebbà io esperÃenza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
chà ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io non mÃera accorto, quando venimmo ove quellà anime ad una
gridaro a noi: ´Qui à vostro dimandoª.
Maggiore aperta molte volte impruna
con una forcatella di sue spine
lÃuom de la villa quando lÃuva imbruna,
che non era la calla onde salÃne
lo duca mio, e io appresso, soli,
come da noi la schiera si partÃne.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, montasi su in Bismantova e Ãn Cacume
con esso i piÃ; ma qui convien chÃom voli;
dico con lÃale snelle e con le piume del gran disio, di retro a quel condotto che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro Ãl sasso rotto, e dÃogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in su lÃorlo suppremo de lÃalta ripa, a la scoperta piaggia,
´Maestro mioª, dissà io, ´che via faremo?ª.
Ed elli a me: ´Nessun tuo passo caggia; pur su al monte dietro a me acquista,
fin che nÃappaia alcuna scorta saggiaª.
Lo sommo erà alto che vincea la vista, e la costa superba piË assai
che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso, quando cominciai:
´O dolce padre, volgiti, e rimira
comà io rimango sol, se non restaiª.
´Figliuol mioª, disse, ´infin quivi ti tiraª, additandomi un balzo poco in sËe
che da quel lato il poggio tutto gira.
SÃ mi spronaron le parole sue,
chÃià mi sforzai carpando appresso lui, tanto che Ãl cinghio sotto i pià mi fue.
A seder ci ponemmo ivi ambedui
vÃlti a levante ondà eravam saliti, che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima drizzai ai bassi liti; poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra nÃeravam feriti.
Ben sÃavvide il poeta chÃÃo stava
stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e Aquilone intrava.
Ondà elli a me: ´Se Castore e Poluce fossero in compagnia di quello specchio
che sË e giË del suo lume conduce,
tu vedresti il ZodÃaco rubecchio
ancora a lÃOrse piË stretto rotare, se non uscisse fuor del cammin vecchio.
Come cià sia, se Ãl vuoi poter pensare, dentro raccolto, imagina SÃÃn
con questo monte in su la terra stare
sÃ, chÃamendue hanno un solo orizzÃn e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar FetÃn,
vedrai come a costui convien che vada da lÃun, quando a colui da lÃaltro fianco, se lo Ãntelletto tuo ben chiaro badaª.
´Certo, maestro mio,ª dissà io, ´unquanco non vidà io chiaro sà comà io discerno l⡠dove mio ingegno parea manco,
che Ãl mezzo cerchio del moto superno, che si chiama Equatore in alcunà arte,
e che sempre riman tra Ãl sole e Ãl verno,
per la ragion che diÃ, quinci si parte verso settentrÃon, quanto li Ebrei
vedevan lui verso la calda parte.
Ma se a te piace, volontier saprei
quanto avemo ad andar; chà Ãl poggio sale piË che salir non posson li occhi mieiª.
Ed elli a me: ´Questa montagna à tale, che sempre al cominciar di sotto à grave; e quantà om piË va sË, e men fa male.
PerÃ, quandà ella ti parrâ¡ soave
tanto, che sË andar ti fia leggero comà a seconda giË andar per nave,
allor sarai al fin dÃesto sentiero;
quivi di riposar lÃaffanno aspetta. PiË non rispondo, e questo so per veroª.
E comà elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonÃ: ´Forse
che di sedere in pria avrai distretta!ª.
Al suon di lei ciascun di noi si torse, e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual nà io nà ei prima sÃaccorse.
Lâ¡ ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a lÃombra dietro al sasso come lÃuom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo Ãl viso giË tra esse basso.
´O dolce segnor mioª, dissà io, ´adocchia colui che mostra sà piË negligente
che se pigrizia fosse sua serocchiaª.
Allor si volse a noi e puose mente,
movendo Ãl viso pur su per la coscia, e disse: ´Or va tu sË, che seà valente!ª.
Conobbi allor chi era, e quella angoscia che mÃavacciava un poco ancor la lena,
non mÃimpedà lÃandare a lui; e poscia
chÃa lui fuà giunto, alzà la testa a pena, dicendo: ´Hai ben veduto come Ãl sole
da lÃomero sinistro il carro mena?ª.
Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso; poi cominciai: ´Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perchà assiso
quiritto seÃ? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato tÃhaà ripriso?ª.
Ed elli: ´O frate, andar in sË che porta? chà non mi lascerebbe ire aà martÃri
lÃangel di Dio che siede in su la porta.
Prima convien che tanto il ciel mÃaggiri di fuor da essa, quanto fece in vita,
per chÃio Ãndugiai al fine i buon sospiri,
se orazÃone in prima non mÃaita
che surga sË di cuor che in grazia viva; lÃaltra che val, che Ãn ciel non à udita?ª.
E giâ¡ il poeta innanzi mi saliva,
e dicea: ´Vienne omai; vedi chÃà tocco meridÃan dal sole e a la riva
cuopre la notte gi⡠col pià Morroccoª.
Purgatorio â Canto V
Io era giâ¡ da quellà ombre partito, e seguitava lÃorme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando Ãl dito,
una gridÃ: ´Veà che non par che luca lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!ª.
Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e Ãl lume chÃera rotto.
´Perchà lÃanimo tuo tanto sÃimpigliaª, disse Ãl maestro, ´che lÃandare allenti? che ti fa cià che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla
giâ¡ mai la cima per soffiar di venti;
chà sempre lÃomo in cui pensier rampolla sovra pensier, da sà dilunga il segno,
perchà la foga lÃun de lÃaltro insollaª.
Che potea io ridir, se non ´Io vegnoª? Dissilo, alquanto del color consperso
che fa lÃuom di perdon talvolta degno.
E Ãntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco, cantando ëMiserereà a verso a verso.
Quando sÃaccorser chÃià non dava loco per lo mio corpo al trapassar dÃi raggi, mutar lor canto in un ´oh!ª lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontrà a noi e dimandarne: ´Di vostra condizion fatene saggiª.
E Ãl mio maestro: ´Voi potete andarne e ritrarre a color che vi mandaro
che Ãl corpo di costui à vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro,
comà io avviso, assai à lor risposto: fâ¡ccianli onore, ed esser puà lor caroª.
Vapori accesi non vidà io sà tosto
di prima notte mai fender sereno,
nÃ, sol calando, nuvole dÃagosto,
che color non tornasser suso in meno; e, giunti lâ¡, con li altri a noi dier volta, come schiera che scorre sanza freno.
´Questa gente che preme a noi à molta, e vegnonti a pregarª, disse Ãl poeta:
´perà pur va, e in andando ascoltaª.
´O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascestiª, venian gridando, ´un poco il passo queta.
Guarda sÃalcun di noi unqua vedesti, sà che di lui di lâ¡ novella porti:
deh, perchà vai? deh, perchà non tÃarresti?
Noi fummo tutti giâ¡ per forza morti, e peccatori infino a lÃultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,
sà che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sà veder nÃaccoraª.
E io: ´Perchà neà vostri visi guati, non riconosco alcun; ma sÃa voi piace
cosa chÃio possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farà per quella pace
che, dietro aà piedi di sà fatta guida, di mondo in mondo cercar mi si faceª.
E uno incominciÃ: ´Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che Ãl voler nonpossa non ricida.
Ondà io, che solo innanzi a li altri parlo, ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese in Fano, sà che ben per me sÃadori
pur chÃià possa purgar le gravi offese.
Quindi fuà io; ma li profondi fÃri
ondà uscà Ãl sangue in sul quale io sedea, fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
lâ¡ dovà io piË sicuro esser credea: quel da Esti il fà far, che mÃavea in ira assai piË lâ¡ che dritto non volea.
Ma sÃio fosse fuggito inverà la Mira, quando fuà sovragiunto ad OrÃaco,
ancor sarei di lâ¡ dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e Ãl braco mÃimpigliar sà chÃià caddi; e là vidà io de le mie vene farsi in terra lacoª.
Poi disse un altro: ´Deh, se quel disio si compia che ti tragge a lÃalto monte, con buona pÃetate aiuta il mio!
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; Giovanna o altri non ha di me cura;
per chÃio vo tra costor con bassa fronteª.
E io a lui: ´Qual forza o qual ventura ti travÃà sà fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?ª.
´Oh!ª, rispuosà elli, ´a pià del Casentino traversa unÃacqua cÃha nome lÃArchiano, che sovra lÃErmo nasce in Apennino.
Lâ¡ Ãve Ãl vocabol suo diventa vano, arrivaà io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria finiÃ, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirà vero, e tu Ãl ridà tra à vivi: lÃangel di Dio mi prese, e quel dÃinferno gridava: ìO tu del ciel, perchà mi privi?
Tu te ne porti di costui lÃetterno
per una lagrimetta che Ãl mi toglie; ma io farà de lÃaltro altro governo!î.
Ben sai come ne lÃaere si raccoglie
quellà umido vapor che in acqua riede, tosto che sale dove Ãl freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede con lo Ãntelletto, e mosse il fummo e Ãl vento per la virtË che sua natura diede.
Indi la valle, come Ãl dà fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e Ãl ciel di sopra fece intento,
sà che Ãl pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde, e aà fossati venne
di lei cià che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
verà lo fiume real tanto veloce
si ruinÃ, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovà lÃArchian rubesto; e quel sospinse ne lÃArno, e sciolse al mio petto la croce
chÃià feà di me quando Ãl dolor mi vinse; voltÃmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinseª.
´Deh, quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga viaª,
seguità Ãl terzo spirito al secondo,
´ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fÃ, disfecemi Maremma:
salsi colui che Ãnnanellata pria
disposando mÃavea con la sua gemmaª.
Purgatorio â Canto VI
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con lÃaltro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente;
el non sÃarresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, piË non fa pressa;
e cosà da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e lâ¡, la faccia, e promettendo mi sciogliea da essa.
Quivà era lÃAretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e lÃaltro chÃannegà correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fà parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso e lÃanima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia, comà eà dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, mentrà à di qua, la donna di Brabante, sà che perà non sia di peggior greggia.
Come libero fui da tutte quante
quellà ombre che pregar pur chÃaltri prieghi, sà che sÃavacci lor divenir sante,
io cominciai: ´El par che tu mi nieghi, o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non mÃà Ãl detto tuo ben manifesto?ª.
Ed elli a me: ´La mia scrittura à piana; e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
chà cima di giudicio non sÃavvalla
perchà foco dÃamor compia in un punto cià che deà sodisfar chi qui sÃastalla;
e lâ¡ dovà io fermai cotesto punto, non sÃammendava, per pregar, difetto,
perchà Ãl priego da Dio era disgiunto.
Veramente a cosà alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice che lume fia tra Ãl vero e lo Ãntelletto.
Non so se Ãntendi: io dico di Beatrice; tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e feliceª.
E io: ´Segnore, andiamo a maggior fretta, chà giâ¡ non mÃaffatico come dianzi,
e vedi omai che Ãl poggio lÃombra gettaª.
´Noi anderem con questo giorno innanziª, rispuose, ´quanto piË potremo omai;
ma Ãl fatto à dÃaltra forma che non stanzi.
Prima che sie lâ¡ sË, tornar vedrai colui che giâ¡ si cuopre de la costa,
sà che à suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi lâ¡ unÃanima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda: quella ne Ãnsegnerâ¡ la via piË tostaª.
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicÃa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci Ãnchiese; e Ãl dolce duca incominciava ´Mant¸a . . . ª, e lÃombra, tutta in sà romita,
surse verà lui del loco ove pria stava, dicendo: ´O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!ª; e lÃun lÃaltro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!
Quellà anima gentil fu cosà presta, sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e lÃun lÃaltro si rode di quei chÃun muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno, sÃalcuna parte in te di pace gode.
Che val perchà ti racconciasse il freno IustinÃano, se la sella à vÃta?
Sanzà esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella, se bene intendi cià che Dio ti nota,
guarda come esta fiera à fatta fella per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco chÃabbandoni
costei chÃÃ fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra Ãl tuo sangue, e sia novo e aperto, tal che Ãl tuo successor temenza nÃaggia!
ChÃavete tu e Ãl tuo padre sofferto, per cupidigia di costâ¡ distretti,
che Ãl giardin de lo Ãmperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color giâ¡ tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura dÃi tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior comà à oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dà e notte chiama: ´Cesare mio, perchà non mÃaccompagne?ª.
Vieni a veder la gente quanto sÃama! e se nulla di noi pietâ¡ ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito mÃÃ, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso, son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O Ã preparazion che ne lÃabisso
del tuo consiglio fai per alcun bene in tutto de lÃaccorger nostro scisso?
Chà le cittâ¡ dÃItalia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca,
mercà del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca per non venir sanza consiglio a lÃarco; ma il popol tuo lÃha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: ´Ià mi sobbarco!ª.
Or ti fa lieta, chà tu hai ben onde: tu ricca, tu con pace e tu con senno!
SÃio dico Ãl ver, lÃeffetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
lÃantiche leggi e furon sà civili, fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, chÃa mezzo novembre
non giugne quel che tu dÃottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre, legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma che non puà trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
Purgatorio â Canto VII
Poscia che lÃaccoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: ´Voi, chi siete?ª.
´Anzi che a questo monte fosser volte lÃanime degne di salire a Dio,
fur lÃossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per nullà altro rio lo ciel perdei che per non aver fê.
Cosà rispuose allora il duca mio.
Qual à colui che cosa innanzi sÃ
sËbita vede ondà eà si maraviglia, che crede e non, dicendo ´Ella à . . . non à . . . ª,
tal parve quelli; e poi chinà le ciglia, e umilmente ritornà verà lui,
e abbracciÃl lâ¡ Ãve Ãl minor sÃappiglia.
´O gloria di Latinª, disse, ´per cui mostrà cià che potea la lingua nostra, o pregio etterno del loco ondà io fui,
qual merito o qual grazia mi ti mostra? SÃio son dÃudir le tue parole degno,
dimmi se vien dÃinferno, e di qual chiostraª.
´Per tuttà i cerchi del dolente regnoª, rispuose lui, ´son io di qua venuto;
virtË del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare ho perduto a veder lÃalto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo à lâ¡ giË non tristo di martÃri, ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da lÃumana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante virtË non si vestiro, e sanza vizio
conobber lÃaltre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
dâ¡ noi per che venir possiam piË tosto lâ¡ dove purgatorio ha dritto inizioª.
Rispuose: ´Loco certo non cÃà posto; licito mÃà andar suso e intorno;
per quanto ir posso, a guida mi tÃaccosto.
Ma vedi giâ¡ come dichina il giorno, e andar sË di notte non si puote;
perà à buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a destra qua remote;
se mi consenti, io ti merrà ad esse, e non sanza diletto ti fier noteª.
´Comà à ci�ª, fu risposto. ´Chi volesse salir di notte, fora elli impedito
dÃaltrui, o non sarria chà non potesse?ª.
E Ãl buon Sordello in terra fregà Ãl dito, dicendo: ´Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo Ãl sol partito:
non perà chÃaltra cosa desse briga, che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria con lei tornare in giuso e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che lÃorizzonte il dà tien chiusoª.
Allora il mio segnor, quasi ammirando, ´Menaneª, disse, ´dunque lâ¡ Ãve dici chÃaver si puà diletto dimorandoª.
Poco allungati cÃeravam di lici,
quandà io mÃaccorsi che Ãl monte era scemo, a guisa che i vallon li sceman quici.
´Colâ¡Âª, disse quellà ombra, ´nÃanderemo dove la costa face di sà grembo;
e l⡠il novo giorno attenderemoª.
Tra erto e piano era un sentiero schembo, che ne condusse in fianco de la lacca,
lâ¡ dove piË chÃa mezzo muore il lembo.
Oro e argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in lÃora che si fiacca,
da lÃerba e da li fior, dentrà a quel seno posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore à vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavitâ¡ di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto.
ëSalve, Reginaà in sul verde e Ãn suà fiori quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.
´Prima che Ãl poco sole omai sÃannidiª, comincià Ãl Mantoan che ci avea vÃlti, ´tra color non vogliate chÃio vi guidi.
Di questo balzo meglio li atti e à volti conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giË tra essi accolti.
Colui che piË siede alto e fa sembianti dÃaver negletto cià che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo imperador fu, che potea
sanar le piaghe cÃhanno Italia morta, sà che tardi per altri si ricrea.
LÃaltro che ne la vista lui conforta, resse la terra dove lÃacqua nasce
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto che stretto a consiglio par con colui cÃha sà benigno aspetto, morà fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate lâ¡ come si batte il petto! LÃaltro vedete cÃha fatto a la guancia de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal di Francia: sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sà li lancia.
Quel che par sà membruto e che sÃaccorda, cantando, con colui dal maschio naso,
dÃogne valor portà cinta la corda;
e se re dopo lui fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede, ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote dir de lÃaltre rede; Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risurge per li rami
lÃumana probitate; e questo vole
quei che la dâ¡, perchà da lui si chiami.
Anche al nasuto vanno mie parole
non men chÃa lÃaltro, Pier, che con lui canta, onde Puglia e Proenza giâ¡ si dole.
Tantà à del seme suo minor la pianta, quanto, piË che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.
Vedete il re de la semplice vita
seder lâ¡ solo, Arrigo dÃInghilterra: questi ha neà rami suoi migliore uscita.
Quel che piË basso tra costor sÃatterra, guardando in suso, Ã Guiglielmo marchese, per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canaveseª.
Purgatorio â Canto VIII
Era giâ¡ lÃora che volge il disio
ai navicanti e Ãntenerisce il core lo dà cÃhan detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin dÃamore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quandà io incominciai a render vano
lÃudire e a mirare una de lÃalme
surta, che lÃascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levà ambo le palme,
ficcando li occhi verso lÃorÃente, come dicesse a Dio: ëDÃaltro non calmeÃ.
ëTe lucis anteà sà devotamente
le uscÃo di bocca e con sà dolci note, che fece me a me uscir di mente;
e lÃaltre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto lÃinno intero, avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, chà Ãl velo à ora ben tanto sottile,
certo che Ãl trapassar dentro à leggero.
Io vidi quello essercito gentile
tacito poscia riguardare in sËe,
quasi aspettando, palido e umÃle;
e vidi uscir de lÃalto e scender giËe due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue.
Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate.
LÃun poco sovra noi a star si venne, e lÃaltro scese in lÃopposita sponda,
sà che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernÃa in lor la testa bionda; ma ne la faccia lÃocchio si smarria,
come virtË chÃa troppo si confonda.
´Ambo vegnon del grembo di Mariaª,
disse Sordello, ´a guardia de la valle, per lo serpente che verr⡠vie viaª.
Ondà io, che non sapeva per qual calle, mi volsi intorno, e stretto mÃaccostai, tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello anco: ´Or avvalliamo omai tra le grandi ombre, e parleremo ad esse; grazÃoso fia lor vedervi assaiª.
Solo tre passi credo chÃià scendesse, e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse.
Tempà era giâ¡ che lÃaere sÃannerava, ma non sà che tra li occhi suoi e à miei non dichiarisse cià che pria serrava.
Verà me si fece, e io verà lui mi fei: giudice Nin gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra à rei!
Nullo bel salutar tra noi si tacque;
poi dimandÃ: ´Quantà à che tu venisti a pià del monte per le lontane acque?ª.
´Oh!ª, dissà io lui, ´per entro i luoghi tristi venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che lÃaltra, sà andando, acquistiª.
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse come gente di sËbito smarrita.
LÃuno a Virgilio e lÃaltro a un si volse che sedea lÃ, gridando: ´SË, Currado! vieni a veder che Dio per grazia volseª.
Poi, vÃlto a me: ´Per quel singular grado che tu dei a colui che sà nasconde
lo suo primo perchÃ, che non là à guado,
quando sarai di l⡠da le larghe onde, dà a Giovanna mia che per me chiami
lâ¡ dove a li Ãnnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre piË mÃami, poscia che trasmutà le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco dÃamor dura, se lÃocchio o Ãl tatto spesso non lÃaccende.
Non le far⡠sà bella sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
comà avria fatto il gallo di Galluraª.
Cosà dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur lâ¡ dove le stelle son piË tarde,
sà come rota piË presso a lo stelo.
E Ãl duca mio: ´Figliuol, che lâ¡ sË guarde?ª. E io a lui: ´A quelle tre facelle
di che Ãl polo di qua tutto quanto ardeª.
Ondà elli a me: ´Le quattro chiare stelle che vedevi staman, son di l⡠basse,
e queste son salite ovà eran quelleª.
Comà ei parlava, e Sordello a sà il trasse dicendo: ´Vedi lâ¡ Ãl nostro avversaroª; e drizzà il dito perchà Ãn lâ¡ guardasse.
Da quella parte onde non ha riparo
la picciola vallea, era una biscia, forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra lÃerba e à fior venÃa la mala striscia, volgendo ad ora ad or la testa, e Ãl dosso leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e perà dicer non posso, come mosser li astor celestÃali;
ma vidi bene e lÃuno e lÃaltro mosso.
Sentendo fender lÃaere a le verdi ali, fuggà Ãl serpente, e li angeli dier volta, suso a le poste rivolando iguali.
LÃombra che sÃera al giudice raccolta quando chiamÃ, per tutto quello assalto