conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?ª. E quelli: ´Ià mi partii,
poco Ã, da un che fu di lâ¡ vicino. Cosà fossà io ancor con lui coperto,
chÃià non temerei unghia nà uncino!ª.
E Libicocco ´Troppo avem soffertoª, disse; e preseli Ãl braccio col runciglio, sà che, stracciando, ne portà un lacerto.
Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde Ãl decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.
Quandà elli un poco rappaciati fuoro, a lui, chÃancor mirava sua ferita,
domandà Ãl duca mio sanza dimoro:
´Chi fu colui da cui mala partita
dià che facesti per venire a proda?ª. Ed ei rispuose: ´Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel dÃogne froda, chÃebbe i nemici di suo donno in mano,
e fà sà lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,
sà comà eà dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
OmÃ, vedete lÃaltro che digrigna;
ià direi anche, ma ià temo chÃello non sÃapparecchi a grattarmi la tignaª.
E Ãl gran proposto, vÃlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire,
disse: ´Fatti Ãn costâ¡, malvagio uccello!ª.
´Se voi volete vedere o udireª,
ricomincià lo spa¸rato appresso,
´Toschi o Lombardi, io ne farà venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso, sà chÃei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso,
per un chÃio son, ne farà venir sette quandà io suffolerÃ, comà à nostro uso di fare allor che fori alcun si metteª.
Cagnazzo a cotal motto levà Ãl muso, crollando Ãl capo, e disse: ´Odi malizia chÃelli ha pensata per gittarsi giuso!ª.
Ondà ei, chÃavea lacciuoli a gran divizia, rispuose: ´Malizioso son io troppo,
quandà io procuro aà mia maggior trestiziaª.
Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: ´Se tu ti cali, io non ti verrà dietro di gualoppo,
ma batterà sovra la pece lÃali.
Lascisi Ãl collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol piË di noi valiª.
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da lÃaltra costa li occhi volse, quel prima, chÃa cià fare era piË crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermà le piante a terra, e in un punto saltà e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei piË che cagion fu del difetto; perà si mosse e gridÃ: ´Tu seà giunto!ª.
Ma poco i valse: chà lÃali al sospetto non potero avanzar; quelli andà sotto,
e quei drizzà volando suso il petto:
non altrimenti lÃanitra di botto,
quando Ãl falcon sÃappressa, giË sÃattuffa, ed ei ritorna sË crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;
e come Ãl barattier fu disparito,
cosà volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra Ãl fosso ghermito.
Ma lÃaltro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sËbito fue;
ma perà di levarsi era neente,
sà avieno inviscate lÃali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fà volar da lÃaltra costa
con tuttà i raffi, e assai prestamente
di qua, di lâ¡ discesero a la posta; porser li uncini verso li Ãmpaniati,
chÃeran giâ¡ cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor cosà Ãmpacciati.
Inferno â Canto XXIII
Taciti, soli, sanza compagnia
nÃandavam lÃun dinanzi e lÃaltro dopo, come frati minor vanno per via.
VÃltà era in su la favola dÃIsopo
lo mio pensier per la presente rissa, dovà el parlà de la rana e del topo;
chà piË non si pareggia ëmoà e ëissaà che lÃun con lÃaltro fa, se ben sÃaccoppia principio e fine con la mente fissa.
E come lÃun pensier de lÃaltro scoppia, cosà nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fà doppia.
Io pensava cosÃ: ëQuesti per noi
sono scherniti con danno e con beffa sà fatta, chÃassai credo che lor nÃi.
Se lÃira sovra Ãl mal voler sÃaggueffa, ei ne verranno dietro piË crudeli
che Ãl cane a quella lievre chÃelli acceffaÃ.
Giâ¡ mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento,
quandà io dissi: ´Maestro, se non celi
te e me tostamente, ià ho pavento
dÃi Malebranche. Noi li avem giâ¡ dietro; io li Ãmagino sÃ, che giâ¡ li sentoª.
E quei: ´SÃià fossi di piombato vetro, lÃimagine di fuor tua non trarrei
piË tosto a me, che quella dentro Ãmpetro.
Pur mo venieno i tuoà pensier tra à miei, con simile atto e con simile faccia,
sà che dÃintrambi un sol consiglio fei.
SÃelli à che sà la destra costa giaccia, che noi possiam ne lÃaltra bolgia scendere, noi fuggirem lÃimaginata cacciaª.
Giâ¡ non compià di tal consiglio rendere, chÃio li vidi venir con lÃali tese
non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di sËbito mi prese,
come la madre chÃal romore à desta e vede presso a sà le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non sÃarresta, avendo piË di lui che di sà cura,
tanto che solo una camiscia vesta;
e giË dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia, che lÃun deà lati a lÃaltra bolgia tura.
Non corse mai sà tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno,
quandà ella piË verso le pale approccia,
come Ãl maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra Ãl suo petto,
come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i pià suoi giunti al letto del fondo giË, chÃeà furon in sul colle sovresso noi; ma non là era sospetto:
chà lÃalta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirsà indi a tutti tolle.
Lâ¡ giË trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugnà per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sà chÃelli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella gente stanca
venÃa sà pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover dÃanca.
Per chÃio al duca mio: ´Fa che tu trovi alcun chÃal fatto o al nome si conosca, e li occhi, sà andando, intorno moviª.
E un che Ãntese la parola tosca,
di retro a noi gridÃ: ´Tenete i piedi, voi che correte sà per lÃaura fosca!
Forse chÃavrai da me quel che tu chiediª. Onde Ãl duca si volse e disse: ´Aspetta, e poi secondo il suo passo procediª.
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de lÃanimo, col viso, dÃesser meco;
ma tardavali Ãl carco e la via stretta.
Quando fuor giunti, assai con lÃocchio bieco mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sÃ, e dicean seco:
´Costui par vivo a lÃatto de la gola; e sÃeà son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?ª.
Poi disser me: ´O Tosco, chÃal collegio de lÃipocriti tristi seà venuto,
dir chi tu seà non avere in dispregioª.
E io a loro: ´Ià fui nato e cresciuto sovra Ãl bel fiume dÃArno a la gran villa, e son col corpo chÃià ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quantà ià veggio dolor giË per le guance? e che pena à in voi che sà sfavilla?ª.
E lÃun rispuose a me: ´Le cappe rance son di piombo sà grosse, che li pesi
fan cosà cigolar le lor bilance.
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali,
chÃancor si pare intorno dal Gardingoª.
Io cominciai: ´O frati, i vostri mali . . . ª; ma piË non dissi, chÃa lÃocchio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e Ãl frate Catalan, chÃa cià sÃaccorse,
mi disse: ´Quel confitto che tu miri, consiglià i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo aà martÃri.
Attraversato Ã, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed à mestier chÃel senta qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementaª.
Allor vidà io maravigliar Virgilio
sovra colui chÃera disteso in croce tanto vilmente ne lÃetterno essilio.
Poscia drizzà al frate cotal voce:
´Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci sÃa la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan dÃesto fondo a dipartirciª.
Rispuose adunque: ´PiË che tu non speri sÃappressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tuttà i vallon feri,
salvo che Ãn questo à rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchiaª.
Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: ´Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncinaª.
E Ãl frate: ´Io udià giâ¡ dire a Bologna del diavol vizi assai, tra à quali udià chÃelli à bugiardo, e padre di menzognaª.
Appresso il duca a gran passi sen gÃ, turbato un poco dÃira nel sembiante;
ondà io da li Ãncarcati mi partiÃ
dietro a le poste de le care piante.
Inferno â Canto XXIV
In quella parte del giovanetto anno
che Ãl sole i crin sotto lÃAquario tempra e giâ¡ le notti al mezzo dà sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra lÃimagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ondà ei si batte lÃanca,
ritorna in casa, e qua e lâ¡ si lagna, come Ãl tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo Ãl mondo aver cangiata faccia in poco dÃora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Cosà mi fece sbigottir lo mastro
quandà io li vidi sà turbar la fronte, e cosà tosto al mal giunse lo Ãmpiastro;
chÃ, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio
dolce chÃio vidi prima a pià del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei chÃadopera ed estima,
che sempre par che Ãnnanzi si proveggia, cosÃ, levando me sË verà la cima
dÃun ronchione, avvisava unÃaltra scheggia dicendo: ´Sovra quella poi tÃaggrappa; ma tenta pria sÃà tal chÃella ti reggiaª.
Non era via da vestito di cappa,
chà noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam sË montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
piË che da lÃaltro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perchà Malebolge inverà la porta del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta
che lÃuna costa surge e lÃaltra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta
onde lÃultima pietra si scoscende.
La lena mÃera del polmon sà munta
quandà io fui sË, chÃià non potea piË oltre, anzi mÃassisi ne la prima giunta.
´Omai convien che tu cosà ti spoltreª, disse Ãl maestro; ´chÃ, seggendo in piuma, in fama non si vien, nà sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sà lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E perà leva sË; vinci lÃambascia
con lÃanimo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non sÃaccascia.
PiË lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito.
Se tu mi Ãntendi, or fa sà che ti vagliaª.
LevaÃmi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena chÃià non mi sentia, e dissi: ´Va, chÃià son forte e arditoª.
Su per lo scoglio prendemmo la via,
chÃera ronchioso, stretto e malagevole, ed erto piË assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscà de lÃaltro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra Ãl dosso fossi de lÃarco giâ¡ che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era vÃlto in giË, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro;
per chÃio: ´Maestro, fa che tu arrivi
da lÃaltro cinghio e dismontiam lo muro; chÃ, comà ià odo quinci e non intendo, cosà giË veggio e neente affiguroª.
´Altra rispostaª, disse, ´non ti rendo se non lo far; chà la dimanda onesta
si deà seguir con lÃopera tacendoª.
Noi discendemmo il ponte da la testa
dove sÃaggiugne con lÃottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sà diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
PiË non si vanti Libia con sua rena; chà se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
nà tante pestilenzie nà sà ree
mostrà giâ¡ mai con tutta lÃEtÃopia nà con cià che di sopra al Mar Rosso Ãe.
Tra questa cruda e tristissima copia
corrÃan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda
e Ãl capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un chÃera da nostra proda, sÃavventà un serpente che Ãl trafisse lâ¡ dove Ãl collo a le spalle sÃannoda.
Nà O sà tosto mai nà I si scrisse, comà el sÃaccese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sà distrutto,
la polver si raccolse per sà stessa e Ãn quel medesmo ritornà di butto.
Cosà per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba nà biado in sua vita non pasce, ma sol dÃincenso lagrime e dÃamomo,
e nardo e mirra son lÃultime fasce.
E qual à quel che cade, e non sa como, per forza di demon chÃa terra il tira,
o dÃaltra oppilazion che lega lÃomo,
quando si leva, che Ãntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia chÃelli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era Ãl peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quantà à severa, che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domandà poi chi ello era; per chÃei rispuose: ´Io piovvi di Toscana, poco tempo Ã, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sà come a mul chÃià fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tanaª.
E Ão al duca: ´Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giË Ãl pinse;
chÃio Ãl vidi uomo di sangue e di crucciª.
E Ãl peccator, che Ãntese, non sÃinfinse, ma drizzà verso me lÃanimo e Ãl volto, e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: ´PiË mi duol che tu mÃhai colto ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de lÃaltra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi; in giË son messo tanto perchà io fui
ladro a la sagrestia dÃi belli arredi,
e falsamente gi⡠fu apposto altrui. Ma perchà di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor daà luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Pistoia in pria dÃi Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
chÃÃ di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impet¸osa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ondà ei repente spezzerâ¡ la nebbia, sà chÃogne Bianco ne sarâ¡ feruto.
E detto lÃho perchà doler ti debbia!ª.
Inferno â Canto XXV
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzà con amendue le fiche, gridando: ´Togli, Dio, chÃa te le squadro!ª.
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perchà una li sÃavvolse allora al collo, come dicesse ëNon voà che piË dicheÃ;
e unÃaltra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sà stessa sà dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, chà non stanzi dÃincenerarti sà che piË non duri,
poi che Ãn mal fare il seme tuo avanzi?
Per tuttà i cerchi de lo Ãnferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giË daà muri.
El si fuggà che non parlà piË verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: ´Ovà Ã, ovà à lÃacerbo?ª.
Maremma non credà io che tante nÃabbia, quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con lÃali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque sÃintoppa.
Lo mio maestro disse: ´Questi à Caco, che, sotto Ãl sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.
Non va coà suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece
del grande armento chÃelli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza dÃErcule, che forse gliene dià cento, e non sentà le dieceª.
Mentre che sà parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi,
deà quai nà io nà Ãl duca mio sÃaccorse,
se non quando gridar: ´Chi siete voi?ª; per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che lÃun nomar un altro convenette,
dicendo: ´Cianfa dove fia rimaso?ª; per chÃio, accià che Ãl duca stesse attento, mi puosi Ãl dito su dal mento al naso.
Se tu seà or, lettore, a creder lento cià chÃio dirÃ, non sarâ¡ maraviglia, chà io che Ãl vidi, a pena il mi consento.
Comà io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei pià si lancia
dinanzi a lÃuno, e tutto a lui sÃappiglia.
Coà pià di mezzo li avvinse la pancia e con li anterÃor le braccia prese;
poi li addentà e lÃuna e lÃaltra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra Ãmbedue
e dietro per le ren sË la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sÃ, come lÃorribil fiera per lÃaltrui membra avviticchià le sue.
Poi sÃappiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore, nà lÃun nà lÃaltro giâ¡ parea quel chÃera:
come procede innanzi da lÃardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non à nero ancora e Ãl bianco more.
Li altri due Ãl riguardavano, e ciascuno gridava: ´OmÃ, Agnel, come ti muti!
Vedi che gi⡠non seà nà due nà unoª.
Giâ¡ eran li due capi un divenuti,
quando nÃapparver due figure miste in una faccia, ovà eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e Ãl ventre e Ãl casso divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun lÃimagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.
Come Ãl ramarro sotto la gran fersa
dei dà canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
sà pareva, venendo verso lÃepe
de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima à preso
nostro alimento, a lÃun di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto Ãl mirÃ, ma nulla disse; anzi, coà pià fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre lÃassalisse.
Elli Ãl serpente e quei lui riguardava; lÃun per la piaga e lÃaltro per la bocca fummavan forte, e Ãl fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai l⡠dovà eà tocca del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel chÃor si scocca.
Taccia di Cadmo e dÃAretusa Ovidio,
chà se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo Ãnvidio;
chà due nature mai a fronte a fronte non trasmutà sà chÃamendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme,
che Ãl serpente la coda in forca fesse, e Ãl feruto ristrinse insieme lÃorme.
Le gambe con le cosce seco stesse
sÃappiccar sÃ, che Ãn poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva lâ¡, e la sua pelle si facea molle, e quella di lâ¡ dura.
Io vidi intrar le braccia per lÃascelle, e i due pià de la fiera, chÃeran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li pià di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che lÃuom cela,
e Ãl misero del suo nÃavea due porti.
Mentre che Ãl fummo lÃuno e lÃaltro vela di color novo, e genera Ãl pel suso
per lÃuna parte e da lÃaltra il dipela,
lÃun si levà e lÃaltro cadde giuso, non torcendo perà le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel chÃera dritto, il trasse verà le tempie, e di troppa matera chÃin lâ¡ venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
cià che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fà naso a la faccia
e le labbra ingrossà quanto convenne.
Quel che giacÃa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, chÃavÃa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne lÃaltro si richiude; e Ãl fummo resta.
LÃanima chÃera fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e lÃaltro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a lÃaltro: ´Ià voà che Buoso corra, comà ho fattà io, carpon per questo calleª.
Cosà vidà io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novitâ¡ se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e lÃanimo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
chÃià non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
lÃaltrà era quel che tu, Gaville, piagni.
Inferno â Canto XXVI
Godi, Fiorenza, poi che seà sà grande che per mare e per terra batti lÃali,
e per lo Ãnferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non chÃaltri, tÃagogna.
E se gi⡠fosse, non saria per tempo. Cosà fossà ei, da che pur esser dee!
chà piË mi graverâ¡, comà piË mÃattempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che nÃavea fatto iborni a scender pria, rimontà Ãl duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra à rocchi de lo scoglio lo pià sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a cià chÃio vidi, e piË lo Ãngegno affreno chÃià non soglio,
perchà non corra che virtË nol guidi; sà che, se stella bona o miglior cosa
mÃha dato Ãl ben, chÃio stessi nol mÃinvidi.
Quante Ãl villan chÃal poggio si riposa, nel tempo che colui che Ãl mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giË per la vallea,
forse col⡠dovà eà vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
lÃottava bolgia, sà comà io mÃaccorsi tosto che fui lâ¡ Ãve Ãl fondo parea.
E qual colui che si vengià con li orsi vide Ãl carro dÃElia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sà con li occhi seguire, chÃel vedesse altro che la fiamma sola, sà come nuvoletta, in sË salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, chà nessuna mostra Ãl furto, e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra Ãl ponte a veder surto, sà che sÃio non avessi un ronchion preso, caduto sarei giË sanzà esser urto.
E Ãl duca che mi vide tanto atteso,
disse: ´Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel chÃelli à incesoª.
´Maestro mioª, rispuosà io, ´per udirti son io piË certo; ma giâ¡ mÃera avviso che cosà fosse, e giâ¡ voleva dirti:
chi à Ãn quel foco che vien sà diviso di sopra, che par surger de la pira
dovà EteÃcle col fratel fu miso?ª.
Rispuose a me: ´Lâ¡ dentro si martira Ulisse e DÃomede, e cosà insieme
a la vendetta vanno come a lÃira;
e dentro da la lor fiamma si geme
lÃagguato del caval che fà la porta onde uscà deà Romani il gentil seme.
Piangevisi entro lÃarte per che, morta, DeÃdamÃa ancor si duol dÃAchille,
e del Palladio pena vi si portaª.
´SÃei posson dentro da quelle faville parlarª, dissà io, ´maestro, assai ten priego e ripriego, che Ãl priego vaglia mille,
che non mi facci de lÃattender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio verà lei mi piego!ª.
Ed elli a me: ´La tua preghiera à degna di molta loda, e io perà lÃaccetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, chÃià ho concetto cià che tu vuoi; chÃei sarebbero schivi, perchà eà fuor greci, forse del tuo dettoª.
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi:
´O voi che siete due dentro ad un foco, sÃio meritai di voi mentre chÃio vissi, sÃio meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma lÃun di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissiª.
Lo maggior corno de la fiamma antica
comincià a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e lâ¡ menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittà voce di fuori e disse: ´Quando
mi dipartià da Circe, che sottrasse
me piË dÃun anno lâ¡ presso a Gaeta, prima che sà EnÃa la nomasse,
nà dolcezza di figlio, nà la pieta
del vecchio padre, nà Ãl debito amore lo qual dovea Penelopà far lieta,
vincer potero dentro a me lÃardore
chÃià ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per lÃalto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.
LÃun lito e lÃaltro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e lÃisola dÃi Sardi, e lÃaltre che quel mare intorno bagna.
Io e à compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta
dovà Ercule segnà li suoi riguardi
accià che lÃuom piË oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia,
da lÃaltra giâ¡ mÃavea lasciata Setta.
ìO fratiî, dissi ìche per cento milia perigli siete giunti a lÃoccidente,
a questa tanto picciola vigilia
dÃi nostri sensi chÃÃ del rimanente non vogliate negar lÃesperÃenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenzaî.
Li miei compagni fecà io sà aguti,
con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
deà remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle giâ¡ de lÃaltro polo vedea la notte, e Ãl nostro tanto basso, che non surgÃa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che Ãntrati eravam ne lÃalto passo,
quando nÃapparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avÃa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornà in pianto; chà de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fà girar con tutte lÃacque; a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giË, comà altrui piacque,
infin che Ãl mar fu sovra noi richiusoª.
Inferno â Canto XXVII
Giâ¡ era dritta in sË la fiamma e queta per non dir piË, e giâ¡ da noi sen gia con la licenza del dolce poeta,
quandà unÃaltra, che dietro a lei venÃa, ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor nÃuscia.
Come Ãl bue cicilian che mugghià prima col pianto di colui, e cià fu dritto,
che lÃavea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de lÃafflitto, sà che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
cosÃ, per non aver via nà forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertÃan le parole grame.
Ma poscia chÃebber colto lor vÃaggio su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: ´O tu a cuà io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo ìIstra ten va, piË non tÃadizzoî,
perchà io sia giunto forse alquanto tardo, non tÃincresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto seà di quella dolce terra
latina ondà io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; chÃio fui dÃi monti lâ¡ intra Orbino
e Ãl giogo di che Tever si diserraª.
Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentà di costa,
dicendo: ´Parla tu; questi à latinoª.
E io, chÃavea giâ¡ pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai:
´O anima che seà lâ¡ giË nascosta,
Romagna tua non Ã, e non fu mai,
sanza guerra neà cuor deà suoi tiranni; ma Ãn palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata à moltà anni: lÃaguglia da Polenta la si cova,
sà che Cervia ricuopre coà suoi vanni.
La terra che fà gi⡠la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E Ãl mastin vecchio e Ãl nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo,
lâ¡ dove soglion fan dÃi denti succhio.
Le cittâ¡ di Lamone e di Santerno
conduce il lÃoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.
E quella cuà il Savio bagna il fianco, cosà comà ella sieà tra Ãl piano e Ãl monte, tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi seÃ, ti priego che ne conte; non esser duro piË chÃaltri sia stato, se Ãl nome tuo nel mondo tegna fronteª.
Poscia che Ãl foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, lÃaguta punta mosse
di qua, di lâ¡, e poi dià cotal fiato:
´SÃià credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza piË scosse;
ma perà che giâ¡ mai di questo fondo non tornà vivo alcun, sÃià odo il vero, sanza tema dÃinfamia ti rispondo.
Io fui uom dÃarme, e poi fui cordigliero, credendomi, sà cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venÃa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che mÃintenda.
Mentre chÃio forma fui dÃossa e di polpe che la madre mi diÃ, lÃopere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sà menai lor arte, chÃal fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
cià che pria mi piacÃa, allor mÃincrebbe, e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe dÃi novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin nà con Giudei,
chà ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri
nà mercatante in terra di Soldano,
nà sommo officio nà ordini sacri
guardà in sÃ, nà in me quel capestro che solea fare i suoi cinti piË macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
dÃentro Siratti a guerir de la lebbre, cosà mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perchà le sue parole parver ebbre.
Eà poi ridisse: ìTuo cuor non sospetti; finor tÃassolvo, e tu mÃinsegna fare
sà come Penestrino in terra getti.
Lo ciel possà io serrare e diserrare, come tu sai; perà son due le chiavi
che Ãl mio antecessor non ebbe careî.
Allor mi pinser li argomenti gravi
lâ¡ Ãve Ãl tacer mi fu avviso Ãl peggio, e dissi: ìPadre, da che tu mi lavi
di quel peccato ovà io mo cader deggio, lunga promessa con lÃattender corto
ti farâ¡ trÃunfar ne lÃalto seggioî.
Francesco venne poi, comà io fuà morto, per me; ma un dÃi neri cherubini
li disse: ìNon portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giË tra à miei meschini perchà diede Ãl consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono aà crini;
chÃassolver non si puà chi non si pente, nà pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consenteî.
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: ìForse
tu non pensavi chÃio lËico fossi!î.
A MinÃs mi portÃ; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: ìQuesti à dÃi rei del foco furoî; per chÃio lâ¡ dove vedi son perduto,
e sà vestito, andando, mi rancuroª.
Quandà elli ebbe Ãl suo dir cosà compiuto, la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo Ãl corno aguto.
Noi passammà oltre, e io e Ãl duca mio, su per lo scoglio infino in su lÃaltrà arco che cuopre Ãl fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
Inferno â Canto XXVIII
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno chÃià ora vidi, per narrar piË volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente cÃhanno a tanto comprender poco seno.
SÃel sÃaunasse ancor tutta la gente che giâ¡, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de lÃanella fà sà alte spoglie, come LivÃo scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo;
e lÃaltra il cui ossame ancor sÃaccoglie
a Ceperan, lâ¡ dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e l⡠da Tagliacozzo, dove sanzà arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, dÃaequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Gi⡠veggia, per mezzul perdere o lulla, comà io vidi un, cosà non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e Ãl tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder mÃattacco, guardommi e con le man sÃaperse il petto, dicendo: ´Or vedi comà io mi dilacco!
vedi come storpiato à Mâ°ometto!
Dinanzi a me sen va piangendo AlÃ, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e perà son fessi cosÃ.
Un diavolo à qua dietro che nÃaccisma sà crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quandà avem volta la dolente strada; perà che le ferite son richiuse
prima chÃaltri dinanzi li rivada.
Ma tu chi seà che Ãn su lo scoglio muse, forse per indugiar dÃire a la pena
chÃà giudicata in su le tue accuse?ª.
´Nà morte Ãl giunse ancor, nà colpa Ãl menaª, rispuose Ãl mio maestro, ´a tormentarlo; ma per dar lui esperÃenza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo Ãnferno qua giË di giro in giro; e questà à ver cosà comà io ti parloª.
PiË fuor di cento che, quando lÃudiro, sÃarrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblÃando il martiro.
´Or dà a fra Dolcin dunque che sÃarmi, tu che forse vedraà il sole in breve,
sÃello non vuol qui tosto seguitarmi,
sà di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
chÃaltrimenti acquistar non saria leveª.
Poi che lÃun pià per girsene sospese, Mâ°ometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco Ãl naso infin sotto le ciglia, e non avea mai chÃuna orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprà la canna, chÃera di fuor dÃogne parte vermiglia,
e disse: ´O tu cui colpa non condanna e cuà io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non mÃinganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabà dichina.
E fa saper aà due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se lÃantiveder qui non à vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento dÃun tiranno fello.
Tra lÃisola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sà gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con lÃuno, e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
farâ¡ venirli a parlamento seco;
poi farâ¡ sÃ, chÃal vento di Focara non sarâ¡ lor mestier voto nà precoª.
E io a lui: ´Dimostrami e dichiara,
se vuoà chÃià porti sË di te novella, chi à colui da la veduta amaraª.
Allor puose la mano a la mascella
dÃun suo compagno e la bocca li aperse, gridando: ´Questi à desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che Ãl fornito
sempre con danno lÃattender sofferseª.
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza CurÃo, chÃa dir fu cosà ardito!
E un chÃavea lÃuna e lÃaltra man mozza, levando i moncherin per lÃaura fosca,
sà che Ãl sangue facea la faccia sozza,
gridÃ: ´RicorderaÃti anche del Mosca, che disse, lasso!, ìCapo ha cosa fattaî, che fu mal seme per la gente toscaª.
E io li aggiunsi: ´E morte di tua schiattaª; per chÃelli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa chÃio avrei paura,
sanza piË prova, di contarla solo;
se non che coscÃenza mÃassicura,
la buona compagnia che lÃuom francheggia sotto lÃasbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par chÃio Ãl veggia, un busto sanza capo andar sà come
andavan li altri de la trista greggia;
e Ãl capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: ´Oh me!ª.
Di sà facea a sà stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
comà esser puÃ, quei sa che sà governa.
Quando diritto al pià del ponte fue, levà Ãl braccio alto con tutta la testa per appressarne le parole sue,
che fuoro: ´Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi sÃalcuna à grande come questa.
E perchà tu di me novella porti,
sappi chÃià son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i maà conforti.
Io feci il padre e Ãl figlio in sà ribelli; AchitofÃl non fà piË dÃAbsalone
e di DavÃd coi malvagi punzelli.
Perchà io partià cosà giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio chÃÃ in questo troncone.
Cosà sÃosserva in me lo contrapassoª.
Inferno â Canto XXIX
La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sà inebrÃate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: ´Che pur guate? perchà la vista tua pur si soffolge
lâ¡ giË tra lÃombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sà a lÃaltre bolge; pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E giâ¡ la luna à sotto i nostri piedi; lo tempo à poco omai che nÃà concesso, e altro à da veder che tu non vediª.
´Se tu avessiª, rispuosà io appresso, ´atteso a la cagion per chÃio guardava, forse mÃavresti ancor lo star dimessoª.
Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, giâ¡ faccendo la risposta,
e soggiugnendo: ´Dentro a quella cava
dovà io tenea or li occhi sà a posta, credo chÃun spirto del mio sangue pianga la colpa che lâ¡ giË cotanto costaª.
Allor disse Ãl maestro: ´Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovrà ello. Attendi ad altro, ed ei lâ¡ si rimanga;
chÃio vidi lui a pià del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito,
e udià Ãl nominar Geri del Bello.
Tu eri allor sà del tutto impedito
sovra colui che giâ¡ tenne Altaforte, che non guardasti in lâ¡, sà fu partitoª.
´O duca mio, la vÃolenta morte
che non li à vendicata ancorª, dissà io, ´per alcun che de lÃonta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ondà el sen gio sanza parlarmi, sà comà Ão estimo:
e in cià mÃha el fatto a sà piË pioª.
Cosà parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio lÃaltra valle mostra, se piË lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor lÃultima chiostra di Malebolge, sà che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di piet⡠ferrati avean li strali; ondà io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra Ãl luglio e Ãl settembre e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti Ãnsembre, tal era quivi, e tal puzzo nÃusciva
qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su lÃultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista piË viva
giË verà lo fondo, la Ãve la ministra de lÃalto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.
Non credo chÃa veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu lÃaere sà pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche;
chÃera a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra Ãl ventre e qual sovra le spalle lÃun de lÃaltro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a sà poggiati,
comà a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al pià di schianze macolati;
e non vidi giâ¡ mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso,
nà a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso
de lÃunghie sopra sà per la gran rabbia del pizzicor, che non ha piË soccorso;
e sà traevan giË lÃunghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie
o dÃaltro pesce che piË larghe lÃabbia.
´O tu che con le dita ti dismaglieª, comincià Ãl duca mio a lÃun di loro,
´e che fai dÃesse talvolta tanaglie,
dinne sÃalcun Latino à tra costoro
che son quincà entro, se lÃunghia ti basti etternalmente a cotesto lavoroª.
´Latin siam noi, che tu vedi sà guasti qui ambedueª, rispuose lÃun piangendo; ´ma tu chi seà che di noi dimandasti?ª.
E Ãl duca disse: ´Ià son un che discendo con questo vivo giË di balzo in balzo,
e di mostrar lo Ãnferno a lui intendoª.
Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che lÃudiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto sÃaccolse, dicendo: ´Dà a lor cià che tu vuoliª; e io incominciai, poscia chÃei volse:
´Se la vostra memoria non sÃimboli
nel primo mondo da lÃumane menti,
ma sÃella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventiª.
´Io fui dÃArezzo, e Albero da Sienaª, rispuose lÃun, ´mi fà mettere al foco; ma quel per chÃio morià qui non mi mena.
Vero à chÃià dissi lui, parlando a gioco: ìIà mi saprei levar per lÃaere a voloî; e quei, chÃavea vaghezza e senno poco,
volle chÃià li mostrassi lÃarte; e solo perchà io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che lÃavea per figliuolo.
Ma ne lÃultima bolgia de le diece
me per lÃalchÃmia che nel mondo usai dannà MinÃs, a cui fallar non leceª.
E io dissi al poeta: ´Or fu gi⡠mai gente sà vana come la sanese?
Certo non la francesca sà dÃassai!ª.
Onde lÃaltro lebbroso, che mÃintese, rispuose al detto mio: ´TraÃmene Stricca che seppe far le temperate spese,
e Niccolà che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne lÃorto dove tal seme sÃappicca;
e traÃne la brigata in che disperse
Caccia dÃAscian la vigna e la gran fonda, e lÃAbbagliato suo senno proferse.
Ma perchà sappi chi sà ti seconda
contra i Sanesi, aguzza verà me lÃocchio, sà che la faccia mia ben ti risponda:
sà vedrai chÃio son lÃombra di Capocchio, che falsai li metalli con lÃalchÃmia;
e te dee ricordar, se ben tÃadocchio,
comà io fui di natura buona scimiaª.
Inferno â Canto XXX
Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelà contra Ãl sangue tebano, come mostrà una e altra fÃata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano,
gridÃ: ´Tendiam le reti, sà chÃio pigli la leonessa e à leoncini al varcoª;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo lÃun chÃavea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella sÃannegà con lÃaltro carco.
E quando la fortuna volse in basso
lÃaltezza deà Troian che tutto ardiva, sà che Ãnsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrà sà come cane;
tanto il dolor le fà la mente torta.
Ma nà di Tebe furie nà troiane
si vider mâ°i in alcun tanto crude, non punger bestie, nonchà membra umane,
quantà io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo
che Ãl porco quando del porcil si schiude.
LÃuna giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo lÃassannÃ, sà che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E lÃAretin che rimase, tremando
mi disse: ´Quel folletto à Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui cosà conciandoª.
´Ohª, dissà io lui, ´se lÃaltro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi Ã, pria che di qui si spicchiª.
Ed elli a me: ´Quellà à lÃanima antica di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso cosà venne, falsificando sà in altrui forma,
come lÃaltro che lâ¡ sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sà Buoso Donati,
testando e dando al testamento normaª.
E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cuà io avea lÃocchio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.
Io vidi un, fatto a guisa di lÃuto,
pur chÃelli avesse avuta lÃanguinaia tronca da lÃaltro che lÃuomo ha forcuto.
La grave idropesÃ, che sà dispaia
le membra con lÃomor che mal converte, che Ãl viso non risponde a la ventraia,
faceva lui tener le labbra aperte
come lÃetico fa, che per la sete
lÃun verso Ãl mento e lÃaltro in sË rinverte.
´O voi che sanzà alcuna pena siete, e non so io perchÃ, nel mondo gramoª,
dissà elli a noi, ´guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel chÃià volli, e ora, lasso!, un gocciol dÃacqua bramo.
Li ruscelletti che dÃi verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno, chà lÃimagine lor vie piË mÃasciuga
che Ãl male ondà io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ovà io peccai a metter piË li miei sospiri in fuga.
Ivi à Romena, l⡠dovà io falsai
la lega suggellata del Batista;
per chÃio il corpo sË arso lasciai.
Ma sÃio vedessi qui lÃanima trista
di Guido o dÃAlessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro cÃÃ lÃuna giâ¡, se lÃarrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, cÃho le membra legate?
SÃio fossi pur di tanto ancor leggero chÃià potessi in centà anni andare unÃoncia, io sarei messo giâ¡ per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto chÃella volge undici miglia,
e men dÃun mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra sà fatta famiglia; eà mÃindussero a batter li fiorini
chÃavevan tre carati di mondigliaª.
E io a lui: ´Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate Ãl verno, giacendo stretti aà tuoi destri confini?ª.
´Qui li trovaióe poi volta non diernoóª, rispuose, ´quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno.
LÃuna à la falsa chÃaccusà Gioseppo; lÃaltrà à Ãl falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppoª.
E lÃun di lor, che si recà a noia
forse dÃesser nomato sà oscuro,
col pugno li percosse lÃepa croia.
Quella sonà come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: ´Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere scioltoª.
Ondà ei rispuose: ´Quando tu andavi al fuoco, non lÃavei tu cosà presto;
ma sà e piË lÃavei quando coniaviª.
E lÃidropico: ´Tu dià ver di questo: ma tu non fosti sà ver testimonio
lâ¡ Ãve del ver fosti a Troia richestoª.
´SÃio dissi falso, e tu falsasti il conioª, disse Sinon; ´e son qui per un fallo,
e tu per piË chÃalcun altro demonio!ª.
´Ricorditi, spergiuro, del cavalloª, rispuose quel chÃavÃa infiata lÃepa;
´e sieti reo che tutto il mondo sallo!ª.
´E te sia rea la sete onde ti crepaª, disse Ãl Greco, ´la lingua, e lÃacqua marcia che Ãl ventre innanzi a li occhi sà tÃassiepa!ª.
Allora il monetier: ´Cosà si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole;
chÃ, sÃià ho sete e omor mi rinfarcia,
tu hai lÃarsura e Ãl capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a Ãnvitar molte paroleª.
Ad ascoltarli erà io del tutto fisso, quando Ãl maestro mi disse: ´Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!ª.
Quandà io Ãl sentià a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna,
chÃancor per la memoria mi si gira.
Qual à colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare,
sà che quel chÃÃ, come non fosse, agogna,
tal mi fecà io, non possendo parlare, che disÃava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.
´Maggior difetto men vergogna lavaª, disse Ãl maestro, ´che Ãl tuo non à stato; perà dÃogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion chÃio ti sia sempre allato, se piË avvien che fortuna tÃaccoglia
dove sien genti in simigliante piato:
chà voler cià udire à bassa vogliaª.
Inferno â Canto XXXI
Una medesma lingua pria mi morse,
sà che mi tinse lÃuna e lÃaltra guancia, e poi la medicina mi riporse;
cosà odà io che solea far la lancia dÃAchille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che Ãl cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone.
Quivà era men che notte e men che giorno, sà che Ãl viso mÃandava innanzi poco; ma io sentià sonare un alto corno,
tanto chÃavrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sà la sua via seguitando,
dirizzà li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdà la santa gesta,
non sonà sà terribilmente Orlando.
Poco portâ°i in lâ¡ volta la testa, che me parve veder molte alte torri;
ondà io: ´Maestro, dÃ, che terra à questa?ª.
Ed elli a me: ´Perà che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu lâ¡ ti congiungi, quanto Ãl senso sÃinganna di lontano;
perà alquanto piË te stesso pungiª.
Poi caramente mi prese per mano
e disse: ´Pria che noi siam piË avanti, accià che Ãl fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da lÃumbilico in giuso tutti quantiª.
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
cià che cela Ãl vapor che lÃaere stipa,
cosà forando lÃaura grossa e scura, piË e piË appressando verà la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura;
perà che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
cosà la proda che Ãl pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva giâ¡ dÃalcun la faccia, le spalle e Ãl petto e del ventre gran parte, e per le coste giË ambo le braccia.
Natura certo, quando lascià lÃarte
di sà fatti animali, assai fà bene per tÃrre tali essecutori a Marte.
E sÃella dÃelefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente, piË giusta e piË discreta la ne tene;
chà dove lÃargomento de la mente
sÃaggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi puà far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran lÃaltre ossa;
sà che la ripa, chÃera perizoma
dal mezzo in giË, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison sÃaverien dato mal vanto; perà chÃià ne vedea trenta gran palmi dal loco in giË dovà omo affibbia Ãl manto.
´RaphÃl maà amÃcche zabà almiª, comincià a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia piË dolci salmi.
E Ãl duca mio verà lui: ´Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga
quandà ira o altra passÃon ti tocca!
CÃrcati al collo, e troverai la soga che Ãl tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che Ãl gran petto ti dogaª.
Poi disse a me: ´Elli stessi sÃaccusa; questi à Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non sÃusa.
Lasciâ¡nlo stare e non parliamo a vÃto; chà cosà à a lui ciascun linguaggio
come Ãl suo ad altrui, chÃa nullo à notoª.
Facemmo adunque piË lungo vÃaggio,
vÃlti a sinistra; e al trar dÃun balestro trovammo lÃaltro assai piË fero e maggio.
A cigner lui qual che fosse Ãl maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi lÃaltro e dietro il braccio destro
dÃuna catena che Ãl tenea avvinto
dal collo in giË, sà che Ãn su lo scoperto si ravvolgÃa infino al giro quinto.
´Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra Ãl sommo Gioveª, disse Ãl mio duca, ´ondà elli ha cotal merto.
FÃalte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura aà dÃi;
le braccia chÃel menÃ, giâ¡ mai non moveª.
E io a lui: ´SÃesser puote, io vorrei che de lo smisurato BrÃareo
esperÃenza avesser li occhi meiª.
Ondà ei rispuose: ´Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed à disciolto, che ne porrâ¡ nel fondo dÃogne reo.
Quel che tu vuoà veder, piË lâ¡ Ã molto ed à legato e fatto come questo,
salvo che piË feroce par nel voltoª.
Non fu tremoto giâ¡ tanto rubesto,
che scotesse una torre cosà forte, come FÃalte a scuotersi fu presto.
Allor temettà io piË che mai la morte, e non vÃera mestier piË che la dotta,
sÃio non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo piË avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
´O tu che ne la fortunata valle
che fece ScipÃon di gloria reda,
quandà Anibâ¡l coà suoi diede le spalle,
recasti giâ¡ mille leon per preda,
e che, se fossi stato a lÃalta guerra deà tuoi fratelli, ancor par che si creda
chÃavrebber vinto i figli de la terra: mettine giË, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio nà a Tifo:
questi puà dar di quel che qui si brama; perà ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti puà nel mondo render fama,
chÃel vive, e lunga vita ancor aspetta se Ãnnanzi tempo grazia a sà nol chiamaª.
Cosà disse Ãl maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese Ãl duca mio,
ondà Ercule sentà gi⡠grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: ´Fatti qua, sà chÃio ti prendaª; poi fece sà chÃun fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto Ãl chinato, quando un nuvol vada sovrà essa sÃ, ched ella incontro penda:
tal parve AntÃo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora
chÃià avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposÃ;
nÃ, sà chinato, là fece dimora,
e come albero in nave si levÃ.
Inferno â Canto XXXII
SÃÃo avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco
sovra Ãl qual pontan tutte lÃaltre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
piË pienamente; ma perchà io non lÃabbo, non sanza tema a dicer mi conduco;
chà non à impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto lÃuniverso,
nà da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
chÃaiutaro AnfÃone a chiuder Tebe, sà che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare à duro, mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giË nel pozzo scuro
sotto i pià del gigante assai piË bassi, e io mirava ancora a lÃalto muro,
dicere udiÃmi: ´Guarda come passi:
va sÃ, che tu non calchi con le piante le teste deà fratei miseri lassiª.
Per chÃio mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non dÃacqua sembiante.
Non fece al corso suo sà grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi,
nà Tanaà lâ¡ sotto Ãl freddo cielo,
comà era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sË caduto, o Pietrapana,
non avria pur da lÃorlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de lÃacqua, quando sogna di spigolar sovente la villana,
livide, insin lâ¡ dove appar vergogna eran lÃombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giË tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia.
Quandà io mÃebbi dintorno alquanto visto, volsimi aà piedi, e vidi due sà stretti, che Ãl pel del capo avieno insieme misto.
´Ditemi, voi che sà strignete i pettiª, dissà io, ´chi siete?ª. E quei piegaro i colli; e poi chÃebber li visi a me eretti,
li occhi lor, chÃeran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e Ãl gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse forte cosÃ; ondà ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un chÃavea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giËe,
disse: ´Perchà cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
DÃun corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra degna piË dÃesser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e lÃombra con esso un colpo per la man dÃArtË;
non Focaccia; non questi che mÃingombra
col capo sÃ, chÃià non veggio oltre piË, e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco seÃ, ben sai omai chi fu.
E perchà non mi metti in piË sermoni, sappi chÃià fuà il Camiscion deà Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioniª.