che, non men che saver, dubbiar mÃaggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolviª, dissà io, ´lâ¡ dove dià chÃusura offende la divina bontade, e Ãl groppo solviª.
´Filosofiaª, mi disse, ´a chi la Ãntende, nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino Ãntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che lÃarte vostra quella, quanto pote, segue, come Ãl maestro fa Ãl discente; sà che vostrà arte a Dio quasi à nepote.
Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesà dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
e perchà lÃusuriere altra via tene, per sà natura e per la sua seguace
dispregia, poi chÃin altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che Ãl gir mi piace; chà i Pesci guizzan su per lÃorizzonta, e Ãl Carro tutto sovra Ãl Coro giace,
e Ãl balzo via lâ¡ oltra si dismontaª.
Inferno â Canto XII
Era lo loco ovà a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che vÃerà anco, tal, chÃogne vista ne sarebbe schiva.
Qual à quella ruina che nel fianco
di qua da Trento lÃAdice percosse, o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse, al piano à sà la roccia discoscesa,
chÃalcuna via darebbe a chi sË fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e Ãn su la punta de la rotta lacca lÃinfamÃa di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sà stesso morse, sà come quei cui lÃira dentro fiacca.
Lo savio mio inverà lui gridÃ: ´Forse tu credi che qui sia Ãl duca dÃAtene,
che sË nel mondo la morte ti porse?
Pâ¡rtiti, bestia, chà questi non vene ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre peneª.
Qual à quel toro che si slaccia in quella cÃha ricevuto giâ¡ Ãl colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e lâ¡ saltella,
vidà io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridÃ: ´Corri al varco; mentre chÃeà Ãnfuria, à buon che tu ti caleª.
Cosà prendemmo via giË per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: ´Tu pensi forse a questa ruina, chÃà guardata
da quellà ira bestial chÃià ora spensi.
Or voà che sappi che lÃaltra fÃata chÃià discesi qua giË nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda levà a Dite del cerchio superno,
da tutte parti lÃalta valle feda
tremà sÃ, chÃià pensai che lÃuniverso sentisse amor, per lo qual à chi creda
piË volte il mondo in caÃsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, chà sÃapproccia la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vÃolenza in altrui nocciaª.
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sà ci sproni ne la vita corta, e ne lÃetterna poi sà mal cÃimmolle!
Io vidi unÃampia fossa in arco torta, come quella che tutto Ãl piano abbraccia, secondo chÃavea detto la mia scorta;
e tra Ãl pià de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e lÃun gridà da lungi: ´A qual martiro venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, lÃarco tiroª.
Lo mio maestro disse: ´La risposta
farem noi a ChirÃn costâ¡ di presso: mal fu la voglia tua sempre sà tostaª.
Poi mi tentÃ, e disse: ´Quelli à Nesso, che morà per la bella Deianira,
e fà di sà la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, chÃal petto si mira, à il gran ChirÃn, il qual nodrà Achille; quellà altro à Folo, che fu sà pien dÃira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle
del sangue piË che sua colpa sortilleª.
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: ChirÃn prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando sÃebbe scoperta la gran bocca, disse aà compagni: ´Siete voi accorti
che quel di retro move cià chÃel tocca?
Cosà non soglion far li pià dÃi mortiª. E Ãl mio buon duca, che giâ¡ li erà al petto, dove le due nature son consorti,
rispuose: ´Ben à vivo, e sà soletto mostrar li mi convien la valle buia;
necessitâ¡ Ãl ci Ãnduce, e non diletto.
Tal si partà da cantare alleluia
che mi commise questà officio novo: non à ladron, nà io anima fuia.
Ma per quella virtË per cuà io movo li passi miei per sà selvaggia strada,
danne un deà tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri lâ¡ dove si guada,
e che porti costui in su la groppa, chà non à spirto che per lÃaere vadaª.
ChirÃn si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: ´Torna, e sà li guida, e fa cansar sÃaltra schiera vÃintoppaª.
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio; e Ãl gran centauro disse: ´Eà son tiranni che dier nel sangue e ne lÃaver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi à Alessandro, e DÃonisio fero che fà Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte cÃha Ãl pel cosà nero, à Azzolino; e quellà altro chÃà biondo, à Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro sË nel mondoª. Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
´Questi ti sia or primo, e io secondoª.
Poco piË oltre il centauro sÃaffisse sovrà una gente che Ãnfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci unÃombra da lÃun canto sola, dicendo: ´Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che Ãn su Tamisi ancor si colaª.
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto Ãl casso; e di costoro assai riconobbà io.
Cosà a piË a piË si facea basso
quel sangue, sà che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo.
´Sà come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scemaª,
disse Ãl centauro, ´voglio che tu credi
che da questà altra a piË a piË giË prema lo fondo suo, infin chÃel si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
quellà Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerraª.
Poi si rivolse e ripassossi Ãl guazzo.
Inferno â Canto XIII
Non era ancor di lâ¡ Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e Ãnvolti; non pomi vÃeran, ma stecchi con tÃsco.
Non han sà aspri sterpi nà sà folti quelle fiere selvagge che Ãn odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cÃlti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani, pià con artigli, e pennuto Ãl gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani.
E Ãl buon maestro ´Prima che piË entre, sappi che seà nel secondo gironeª,
mi comincià a dire, ´e sarai mentre
che tu verrai ne lÃorribil sabbione. Perà riguarda ben; sà vederai
cose che torrien fede al mio sermoneª.
Io sentia dÃogne parte trarre guai
e non vedea persona che Ãl facesse; per chÃio tutto smarrito mÃarrestai.
Credà Ão chÃei credette chÃio credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse.
Perà disse Ãl maestro: ´Se tu tronchi qualche fraschetta dÃuna dÃeste piante, li pensier cÃhai si faran tutti monchiª.
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno; e Ãl tronco suo gridÃ: ´Perchà mi schiante?ª.
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricomincià a dir: ´Perchà mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebbà esser la tua man piË pia, se state fossimo anime di serpiª.
Come dÃun stizzo verde chÃarso sia
da lÃun deà capi, che da lÃaltro geme e cigola per vento che va via,
sà de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ondà io lasciai la cima cadere, e stetti come lÃuom che teme.
´SÃelli avesse potuto creder primaª, rispuose Ãl savio mio, ´anima lesa,
cià cÃha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra chÃa me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sà che Ãn vece dÃalcunà ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sË, dove tornar li leceª.
E Ãl tronco: ´Sà col dolce dir mÃadeschi, chÃià non posso tacere; e voi non gravi perchà Ão un poco a ragionar mÃinveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sà soavi,
che dal secreto suo quasi ognà uom tolsi; fede portai al glorÃoso offizio,
tanto chÃià ne perdeà li sonni e à polsi.
La meretrice che mai da lÃospizio
di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio,
infiammà contra me li animi tutti;
e li Ãnfiammati infiammar sà Augusto, che à lieti onor tornaro in tristi lutti.
LÃanimo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici dÃesto legno
vi giuro che giâ¡ mai non ruppi fede al mio segnor, che fu dÃonor sà degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che Ãnvidia le diedeª.
Un poco attese, e poi ´Da chÃel si taceª, disse Ãl poeta a me, ´non perder lÃora; ma parla, e chiedi a lui, se piË ti piaceª.
Ondà Ão a lui: ´Domandal tu ancora di quel che credi chÃa me satisfaccia;
chÃià non potrei, tanta pietâ¡ mÃaccoraª.
Percià ricominciÃ: ´Se lÃom ti faccia liberamente cià che Ãl tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come lÃanima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, sÃalcuna mai di tai membra si spiegaª.
Allor soffià il tronco forte, e poi
si convertà quel vento in cotal voce: ´Brievemente sar⡠risposto a voi.
Quando si parte lÃanima feroce
dal corpo ondà ella stessa sÃà disvelta, MinÃs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non lÃÃ parte scelta; ma lâ¡ dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra: lÃArpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come lÃaltre verrem per nostre spoglie, ma non perà chÃalcuna sen rivesta,
chà non à giusto aver cià chÃom si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de lÃombra sua molestaª.
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo chÃaltro ne volesse dire, quando noi fummo dÃun romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente Ãl porco e la caccia a la sua posta, chÃode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sà forte, che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: ´Or accorri, accorri, morte!ª. E lÃaltro, cui pareva tardar troppo,
gridava: ´Lano, sà non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!ª. E poi che forse li fallia la lena,
di sà e dÃun cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri chÃuscisser di catena.
In quel che sÃappiattà miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
´O Iacopoª, dicea, ´da Santo Andrea, che tÃà giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?ª.
Quando Ãl maestro fu sovrà esso fermo, disse: ´Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?ª.
Ed elli a noi: ´O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
cÃha le mie fronde sà da me disgiunte,
raccoglietele al pià del tristo cesto. Ià fui de la citt⡠che nel Batista
mutà Ãl primo padrone; ondà ei per questo
sempre con lÃarte sua la farâ¡ trista; e se non fosse che Ãn sul passo dÃArno rimane ancor di lui alcuna vista,
queà cittadin che poi la rifondarno
sovra Ãl cener che dÃAttila rimase, avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie caseª.
Inferno â Canto XIV
Poi che la caritâ¡ del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte e rendeÃle a colui, chÃera giâ¡ fioco.
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva lÃÃ ghirlanda
intorno, come Ãl fosso tristo ad essa; quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa, non dÃaltra foggia fatta che colei
che fu daà pià di Caton gi⡠soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
cià che fu manifesto a li occhi mei!
DÃanime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava contin¸amente.
Quella che giva Ãntorno era piË molta, e quella men che giacÃa al tormento,
ma piË al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto Ãl sabbion, dÃun cader lento, piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde dÃIndÃa vide sopra Ãl s¸o stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per chÃei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, accià che lo vapore mei si stingueva mentre chÃera solo:
tale scendeva lÃetternale ardore;
onde la rena sÃaccendea, comà esca sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sà lÃarsura fresca.
Ià cominciai: ´Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che à demon duri
chÃa lÃintrar de la porta incontra uscinci,
chi à quel grande che non par che curi lo Ãncendio e giace dispettoso e torto, sà che la pioggia non par che Ãl marturi?ª.
E quel medesmo, che si fu accorto
chÃio domandava il mio duca di lui, gridÃ: ´Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove stanchi Ãl suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta
onde lÃultimo dà percosso fui;
o sÃelli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra,
chiamando ìBuon Vulcano, aiuta, aiuta!î,
sà comà el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegraª.
Allora il duca mio parlà di forza
tanto, chÃià non lÃavea sà forte udito: ´O Capaneo, in cià che non sÃammorza
la tua superbia, seà tu piË punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compitoª.
Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: ´Quei fu lÃun dÃi sette regi chÃassiser Tebe; ed ebbe e par chÃelli abbia
Dio in disdegno, e poco par che Ãl pregi; ma, comà io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi strettiª.
Tacendo divenimmo lâ¡ Ãve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giË sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fattà era Ãn pietra, e à margini dallato; per chÃio mÃaccorsi che Ãl passo era lici.
´Tra tutto lÃaltro chÃià tÃho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno à negato,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile comà à Ãl presente rio, che sovra sà tutte fiammelle ammortaª.
Queste parole fuor del duca mio;
per chÃio Ãl pregai che mi largisse Ãl pasto di cui largito mÃavÃa il disio.
´In mezzo mar siede un paese guastoª, dissà elli allora, ´che sÃappella Creta, sotto Ãl cui rege fu giâ¡ Ãl mondo casto.
Una montagna vÃà che giâ¡ fu lieta dÃacqua e di fronde, che si chiamà Ida; or à diserta come cosa vieta.
RÃa la scelse giâ¡ per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inverà Dammiata e Roma guarda come s¸o speglio.
La sua testa à di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e Ãl petto, poi à di rame infino a la forcata;
da indi in giuso à tutto ferro eletto, salvo che Ãl destro piede à terra cotta; e sta Ãn su quel, piË che Ãn su lÃaltro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che lÃoro, Ã rotta dÃuna fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fÃran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giË per questa stretta doccia,
infin, lâ¡ ove piË non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, perà qui non si contaª.
E io a lui: ´Se Ãl presente rigagno si diriva cosà dal nostro mondo,
perchà ci appar pur a questo vivagno?ª.
Ed elli a me: ´Tu sai che Ãl loco à tondo; e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giË calando al fondo,
non seà ancor per tutto Ãl cerchio vÃlto; per che, se cosa nÃapparisce nova,
non deà addur maraviglia al tuo voltoª.
E io ancor: ´Maestro, ove si trova
Flegetonta e LetÃ? chà de lÃun taci, e lÃaltro dià che si fa dÃesta piovaª.
´In tutte tue question certo mi piaciª, rispuose, ´ma Ãl bollor de lÃacqua rossa dovea ben solver lÃuna che tu faci.
Letà vedrai, ma fuor di questa fossa, lâ¡ dove vanno lÃanime a lavarsi
quando la colpa pentuta à rimossaª.
Poi disse: ´Omai à tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegneª.
Inferno â Canto XV
Ora cen porta lÃun deà duri margini; e Ãl fummo del ruscel di sopra aduggia, sà che dal foco salva lÃacqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo Ãl fiotto che Ãnverà lor sÃavventa, fanno lo schermo perchà Ãl mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che nà sà alti nà sà grossi, qual che si fosse, lo maestro fÃlli.
Giâ¡ eravam da la selva rimossi
tanto, chÃià non avrei visto dovà era, perchà io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo dÃanime una schiera che venian lungo lÃargine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sà verà noi aguzzavan le ciglia come Ãl vecchio sartor fa ne la cruna.
Cosà adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridÃ: ´Qual maraviglia!ª.
E io, quando Ãl suo braccio a me distese, ficcaà li occhi per lo cotto aspetto,
sà che Ãl viso abbrusciato non difese
la conoscenza s¸a al mio Ãntelletto; e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: ´Siete voi qui, ser Brunetto?ª.
E quelli: ´O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco
ritorna Ãn dietro e lascia andar la tracciaª.
Ià dissi lui: ´Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi mÃasseggia,
farÃl, se piace a costui che vo secoª.
´O figliuolª, disse, ´qual di questa greggia sÃarresta punto, giace poi centà anni
sanzà arrostarsi quando Ãl foco il feggia.
Perà va oltre: ià ti verrà aà panni; e poi rigiugnerà la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danniª.
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma Ãl capo chino tenea comà uom che reverente vada.
El cominciÃ: ´Qual fortuna o destino anzi lÃultimo dà qua giË ti mena?
e chi à questi che mostra Ãl cammino?ª.
´Lâ¡ sË di sopra, in la vita serenaª, rispuosà io lui, ´mi smarrià in una valle, avanti che lÃetâ¡ mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi mÃapparve, tornandà Ão in quella, e reducemi a ca per questo calleª.
Ed elli a me: ´Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorÃoso porto,
se ben mÃaccorsi ne la vita bella;
e sÃio non fossi sà per tempo morto, veggendo il cielo a te cosà benigno,
dato tÃavrei a lÃopera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farâ¡, per tuo ben far, nimico; ed à ragion, chà tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gentà à avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che lÃuna parte e lÃaltra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco lÃerba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta, sÃalcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di queà Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tantaª.
´Se fosse tutto pieno il mio dimandoª, rispuosà io lui, ´voi non sareste ancora de lÃumana natura posto in bando;
chà Ãn la mente mÃà fitta, e or mÃaccora, la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
mÃinsegnavate come lÃuom sÃetterna: e quantà io lÃabbia in grado, mentrà io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.
Cià che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprâ¡, sÃa lei arrivo.
Tanto voglà io che vi sia manifesto, pur che mia coscÃenza non mi garra,
chÃa la Fortuna, come vuol, son presto.
Non à nuova a li orecchi miei tal arra: perà giri Fortuna la sua rota
come le piace, e Ãl villan la sua marraª.
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi; poi disse: ´Bene ascolta chi la notaª.
NÃ per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni piË noti e piË sommi.
Ed elli a me: ´Saper dÃalcuno à buono; de li altri fia laudabile tacerci,
chà Ãl tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
dÃun peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco dÃAccorso anche; e vedervi, sÃavessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo deà servi
fu trasmutato dÃArno in Bacchiglione, dove lascià li mal protesi nervi.
Di piË direi; ma Ãl venire e Ãl sermone piË lungo esser non puÃ, perà chÃià veggio lâ¡ surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e piË non cheggioª.
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.
Inferno â Canto XVI
Giâ¡ era in loco onde sÃudia Ãl rimbombo de lÃacqua che cadea ne lÃaltro giro,
simile a quel che lÃarnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, dÃuna torma che passava
sotto la pioggia de lÃaspro martiro.
Venian verà noi, e ciascuna gridava: ´SÃstati tu chÃa lÃabito ne sembri
esser alcun di nostra terra pravaª.
AhimÃ, che piaghe vidi neà lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur chÃià me ne rimembri.
A le lor grida il mio dottor sÃattese; volse Ãl viso verà me, e ´Or aspettaª, disse, ´a costor si vuole esser cortese.
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, ià dicerei
che meglio stesse a te che a lor la frettaª.
Ricominciar, come noi restammo, ei
lÃantico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sà tutti e trei.
Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,
cosà rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sà che Ãn contraro il collo faceva ai pià contin¸o vÃaggio.
E ´Se miseria dÃesto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghiª, comincià lÃuno, ´e Ãl tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu seÃ, che i vivi piedi cosà sicuro per lo Ãnferno freghi.
Questi, lÃorme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada.
LÃaltro, chÃappresso me la rena trita, Ã Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sË dovria esser gradita.
E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie piË chÃaltro mi nuoceª.
SÃià fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che Ãl dottor lÃavria sofferto;
ma perchà io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai: ´Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali ià mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra sono, e sempre mai
lÃovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma Ãnfino al centro pria convien chÃià tomiª.
´Se lungamente lÃanima conduca
le membra tueª, rispuose quelli ancora, ´e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor dà se dimora
ne la nostra cittâ¡ sà come suole, o se del tutto se nÃà gita fora;
chà Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va l⡠coi compagni, assai ne cruccia con le sue paroleª.
´La gente nuova e i sËbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sà che tu gi⡠ten piagniª.
Cosà gridai con la faccia levata;
e i tre, che cià inteser per risposta, guardar lÃun lÃaltro comà al ver si guata.
´Se lÃaltre volte sà poco ti costaª, rispuoser tutti, ´il satisfare altrui,
felice te se sà parli a tua posta!
PerÃ, se campi dÃesti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti giover⡠dicere ìIà fuiî,
fa che di noi a la gente favelleª.
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.
Un amen non saria possuto dirsi
tosto cosà comà eà fuoro spariti; per chÃal maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che Ãl suon de lÃacqua nÃera sà vicino, che per parlar saremmo a pena uditi.
Come quel fiume cÃha proprio cammino prima dal Monte Viso Ãnverà levante,
da la sinistra costa dÃApennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giË nel basso letto,
e a Forlà di quel nome à vacante,
rimbomba lâ¡ sovra San Benedetto
de lÃAlpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
cosÃ, giË dÃuna ripa discoscesa,
trovammo risonar quellà acqua tinta, sà che Ãn pocà ora avria lÃorecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia chÃio lÃebbi tutta da me sciolta, sà come Ãl duca mÃavea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ondà ei si volse inverà lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda
la gittà giuso in quellà alto burrato.
ëEà pur convien che novitâ¡ rispondaÃ, dicea fra me medesmo, ëal novo cenno
che Ãl maestro con lÃocchio sà secondaÃ.
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur lÃovra, ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: ´Tosto verrâ¡ di sovra cià chÃio attendo e che il tuo pensier sogna; tosto convien chÃal tuo viso si scovraª.
Sempre a quel ver cÃha faccia di menzogna deà lÃuom chiuder le labbra fin chÃel puote, perà che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedÃa, lettor, ti giuro,
sÃelle non sien di lunga grazia vÃte,
chÃià vidi per quellà aere grosso e scuro venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sà come torna colui che va giuso
talora a solver lÃâ¡ncora chÃaggrappa o scoglio o altro che nel mare à chiuso,
che Ãn sË si stende e da pià si rattrappa.
Inferno â Canto XVII
´Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e lÃarmi! Ecco colei che tutto Ãl mondo appuzza!ª.
Sà comincià lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin dÃi passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivà la testa e Ãl busto, ma Ãn su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia dÃuom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle,
e dÃun serpente tutto lÃaltro fusto;
due branche avea pilose insin lÃascelle; lo dosso e Ãl petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con piË color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari nà Turchi,
nà fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come lâ¡ tra li Tedeschi lurchi
lo bivero sÃassetta a far sua guerra, cosà la fiera pessima si stava
su lÃorlo chÃÃ di pietra e Ãl sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sË la venenosa forca
chÃa guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: ´Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che col⡠si corcaª.
Perà scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco piË oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi Ãl maestro ´Accià che tutta piena esperÃenza dÃesto giron portiª,
mi disse, ´va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian l⡠corti; mentre che torni, parlerà con questa,
che ne conceda i suoi omeri fortiª.
Cosà ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di lâ¡ soccorrien con le mani
quando aà vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piÃ, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi, neà quali Ãl doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io mÃaccorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca chÃavea certo colore e certo segno,
e quindi par che Ãl loro occhio si pasca.
E comà io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro
che dÃun leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine unÃaltra come sangue rossa,
mostrando unÃoca bianca piË che burro.
E un che dÃuna scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: ´Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perchà seà vivo anco, sappi che Ãl mio vicin VitalÃano
sederâ¡ qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fÃate mi Ãntronan li orecchi gridando: ìVegna Ãl cavalier sovrano,
che recher⡠la tasca con tre becchi!îª. Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che Ãl naso lecchi.
E io, temendo no Ãl piË star crucciasse lui che di poco star mÃavea Ãmmonito,
tornaÃmi in dietro da lÃanime lasse.
Trovaà il duca mio chÃera salito
gi⡠su la groppa del fiero animale, e disse a me: ´Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sà fatte scale;
monta dinanzi, chÃià voglio esser mezzo, sà che la coda non possa far maleª.
Qual à colui che sà presso ha Ãl riprezzo de la quartana, cÃha giâ¡ lÃunghie smorte, e triema tutto pur guardando Ãl rezzo,
tal divennà io a le parole porte;
ma vergogna mi fà le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
Ià mÃassettai in su quelle spallacce; sà volli dir, ma la voce non venne
comà io credetti: ëFa che tu mÃabbracceÃ.
Ma esso, chÃaltra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto chÃià montai con le braccia mÃavvinse e mi sostenne;
e disse: ´GerÃon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco; pensa la nova soma che tu haiª.
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sà quindi si tolse; e poi chÃal tutto si sentà a gioco,
lâ¡ Ãvà era Ãl petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche lÃaere a sà raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonà li freni, per che Ãl ciel, come pare ancor, si cosse;
nà quando Icaro misero le reni
sentà spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui ´Mala via tieni!ª,
che fu la mia, quando vidi chÃià era ne lÃaere dÃogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me nÃaccorgo se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia giâ¡ da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi Ãn giË la testa sporgo.
Allor fuà io piË timido a lo stoscio, perà chÃià vidi fuochi e sentià pianti; ondà io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, chà nol vedea davanti,
lo scendere e Ãl girar per li gran mali che sÃappressavan da diversi canti.
Come Ãl falcon chÃÃ stato assai su lÃali, che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere ´OmÃ, tu cali!ª,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
cosà ne puose al fondo GerÃone
al pià al pià de la stagliata rocca, e, discarcate le nostre persone,
si dileguà come da corda cocca.
Inferno â Canto XVIII
Luogo à in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerà lÃordigno.
Quel cinghio che rimane adunque à tondo tra Ãl pozzo e Ãl pià de lÃalta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
piË e piË fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze daà lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli,
cosà da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e à fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli.
In questo luogo, de la schiena scossi di GerÃon, trovammoci; e Ãl poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso Ãl volto, di lâ¡ con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per lÃessercito molto,
lÃanno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto,
che da lÃun lato tutti hanno la fronte verso Ãl castello e vanno a Santo Pietro, da lÃaltra sponda vanno verso Ãl monte.
Di qua, di lâ¡, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.
Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! giâ¡ nessuno
le seconde aspettava nà le terze.
Mentrà io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sà tosto dissi:
´Gi⡠di veder costui non son digiunoª.
Per chÃÃo a figurarlo i piedi affissi; e Ãl dolce duca meco si ristette,
e assentio chÃalquanto in dietro gissi.
E quel frustato celar si credette
bassando Ãl viso; ma poco li valse, chÃio dissi: ´O tu che lÃocchio a terra gette,
se le fazion che porti non son false, Venedico seà tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sà pungenti salse?ª.
Ed elli a me: ´Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.
IÃ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella.
E non pur io qui piango bolognese;
anzi nÃÃ questo loco tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese
a dicer ësipaà tra Sâ¡vena e Reno; e se di cià vuoi fede o testimonio,
rÃcati a mente il nostro avaro senoª.
Cosà parlando il percosse un demonio de la sua scurÃada, e disse: ´Via,
ruffian! qui non son femmine da conioª.
IÃ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
lâ¡ Ãvà uno scoglio de la ripa uscia.
Assai leggeramente quel salimmo;
e vÃlti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo.
Quando noi fummo l⡠dovà el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: ´Attienti, e fa che feggia
lo viso in te di questà altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia
perà che son con noi insieme andatiª.
Del vecchio ponte guardavam la traccia che venÃa verso noi da lÃaltra banda,
e che la ferza similmente scaccia.
E Ãl buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: ´Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli à IasÃn, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati fÃne.
Ello passà per lÃisola di Lenno
poi che lÃardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannÃ, la giovinetta
che prima avea tutte lÃaltre ingannate.
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta.
Con lui sen va chi da tal parte inganna; e questo basti de la prima valle
sapere e di color che Ãn sà assannaª.
Giâ¡ eravam lâ¡ Ãve lo stretto calle con lÃargine secondo sÃincrocicchia,
e fa di quello ad un altrà arco spalle.
Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne lÃaltra bolgia e che col muso scuffa, e sà medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate dÃuna muffa,
per lÃalito di giË che vi sÃappasta, che con li occhi e col naso facea zuffa.
Lo fondo à cupo sÃ, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso
de lÃarco, ove lo scoglio piË sovrasta.
Quivi venimmo; e quindi giË nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.
E mentre chÃio lâ¡ giË con lÃocchio cerco, vidi un col capo sà di merda lordo,
che non parÃa sÃera laico o cherco.
Quei mi sgridÃ: ´Perchà seà tu sà gordo di riguardar piË me che li altri brutti?ª. E io a lui: ´PerchÃ, se ben ricordo,
giâ¡ tÃho veduto coi capelli asciutti, e seà Alessio Interminei da Lucca:
perà tÃadocchio piË che li altri tuttiª.
Ed elli allor, battendosi la zucca:
´Qua giË mÃhanno sommerso le lusinghe ondà io non ebbi mai la lingua stuccaª.
Appresso cià lo duca ´Fa che pingheª, mi disse, ´il viso un poco piË avante, sà che la faccia ben con lÃocchio attinghe
di quella sozza e scapigliata fante
che lâ¡ si graffia con lÃunghie merdose, e or sÃaccoscia e ora à in piedi stante.
TaÃde Ã, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse ìHo io grazie grandi apo te?î: ìAnzi maravigliose!î.
E quinci sian le nostre viste sazieª.
Inferno â Canto XIX
O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba, perà che ne la terza bolgia state.
Giâ¡ eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte chÃa punto sovra mezzo Ãl fosso piomba.
O somma sapÃenza, quanta à lÃarte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtË comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fÃri,
dÃun largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi nà maggiori
che queà che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco dÃi battezzatori;
lÃun de li quali, ancor non à moltà anni, ruppà io per un che dentro vÃannegava: e questo sia suggel chÃognà omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava dÃun peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e lÃaltro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sà forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia,
tal era là dai calcagni a le punte.
´Chi à colui, maestro, che si cruccia guizzando piË che li altri suoi consortiª, dissà io, ´e cui piË roggia fiamma succia?ª.
Ed elli a me: ´Se tu vuoà chÃià ti porti lâ¡ giË per quella ripa che piË giace, da lui saprai di sà e deà suoi tortiª.
E io: ´Tanto mÃà bel, quanto a te piace: tu seà segnore, e sai chÃià non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si taceª.
Allor venimmo in su lÃargine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca
lâ¡ giË nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sà mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca.
´O qual che seà che Ãl di sË tien di sotto, anima trista come pal commessaª,
cominciaà io a dir, ´se puoi, fa mottoª.
Io stava come Ãl frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi chÃÃ fitto, richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridÃ: ´Seà tu giâ¡ costà ritto, seà tu giâ¡ costà ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentà lo scritto.
Seà tu sà tosto di quellà aver sazio per lo qual non temesti tÃrre a Ãnganno la bella donna, e poi di farne strazio?ª.
Tal mi fecà io, quai son color che stanno, per non intender cià chÃà lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: ´Dilli tosto:
ìNon son colui, non son colui che crediîª; e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: ´Dunque che a me richiedi?
Se di saper chÃià sia ti cal cotanto, che tu abbi perà la ripa corsa,
sappi chÃià fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de lÃorsa,
cupido sà per avanzar li orsatti,
che sË lÃavere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Lâ¡ giË cascherà io altresà quando verrâ¡ colui chÃià credea che tu fossi, allor chÃià feci Ãl sËbito dimando.
Ma piË Ã Ãl tempo giâ¡ che i pià mi cossi e chÃià son stato cosà sottosopra,
chÃel non starâ¡ piantato coi pià rossi:
chà dopo lui verrâ¡ di piË laida opra, di verà ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo IasÃn sarâ¡, di cui si legge
neà Maccabei; e come a quel fu molle suo re, cosà fia lui chi Francia reggeª.
Io non so sÃià mi fui qui troppo folle, chÃià pur rispuosi lui a questo metro: ´Deh, or mi dÃ: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro chÃei ponesse le chiavi in sua balÃa?
Certo non chiese se non ìViemmi retroî.
Nà Pier nà li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdà lÃanima ria.
Perà ti sta, chà tu seà ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta
chÃesser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse chÃancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor piË gravi;
chà la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor sÃaccorse il Vangelista, quando colei che siede sopra lÃacque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto vÃavete dio dÃoro e dÃargento; e che altro à da voi a lÃidolatre,
se non chÃelli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!ª.
E mentrà io li cantava cotai note,
o ira o coscÃenza che Ãl mordesse, forte spingava con ambo le piote.
Ià credo ben chÃal mio duca piacesse, con sà contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Perà con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi sÃebbe al petto, rimontà per la via onde discese.
Nà si stancà dÃavermi a sà distretto, sà men portà sovra Ãl colmo de lÃarco che dal quarto al quinto argine à tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.
Inferno â Canto XX
Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, chÃÃ dÃi sommersi.
Io era giâ¡ disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava dÃangoscioso pianto;
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo.
Come Ãl viso mi scese in lor piË basso, mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra Ãl mento e Ãl principio del casso,
chà da le reni era tornato Ãl volto, e in dietro venir li convenia,
perchà Ãl veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza giâ¡ di parlasia
si travolse cosà alcun del tutto;
ma io nol vidi, nà credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso
comà io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sà torta, che Ãl pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso.
Certo io piangea, poggiato a un deà rocchi del duro scoglio, sà che la mia scorta
mi disse: ´Ancor seà tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietâ¡ quandà à ben morta; chi à piË scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui sÃaperse a li occhi dÃi Teban la terra; per chÃei gridavan tutti: ìDove rui,
AnfÃarao? perchà lasci la guerra?î. E non restà di ruinare a valle
fino a MinÃs che ciascheduno afferra.
Mira cÃha fatto petto de le spalle;
perchà volle veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutà sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga, che rÃavesse le maschili penne.
Aronta à quel chÃal ventre li sÃatterga, che neà monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra à bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e Ãl mar non li era la veduta tronca.
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di lâ¡ ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercà per terre molte; poscia si puose l⡠dove nacquà io;
onde un poco mi piace che mÃascolte.
Poscia che Ãl padre suo di vita uscÃo e venne serva la cittâ¡ di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia bella giace un laco,
a pià de lÃAlpe che serra Lamagna sovra Tiralli, cÃha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e piË si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino
de lÃacqua che nel detto laco stagna.
Loco à nel mezzo lâ¡ dove Ãl trentino pastore e quel di Brescia e Ãl veronese segnar poria, sÃeà fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva Ãntorno piË discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
cià che Ãn grembo a Benaco star non puÃ, e fassi fiume giË per verdi paschi.
Tosto che lÃacqua a correr mette co, non piË Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, chÃel trova una lama, ne la qual si distende e la Ãmpaluda;
e suol di state talor essere grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e dÃabitanti nuda.
LÃ, per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lascià suo corpo vano.
Li uomini poi che Ãntorno erano sparti sÃaccolsero a quel loco, chÃera forte
per lo pantan chÃavea da tutte parti.
Fer la cittâ¡ sovra quellà ossa morte; e per colei che Ãl loco prima elesse,
Mant¸a lÃappellar sanzà altra sorte.
Giâ¡ fuor le genti sue dentro piË spesse, prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
Perà tÃassenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verit⡠nulla menzogna frodiª.
E io: ´Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sà certi e prendon sà mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti.
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
chà solo a cià la mia mente rifiedeª.
Allor mi disse: ´Quel che da la gota porge la barba in su le spalle brune,
fuóquando Grecia fu di maschi vÃta,
sà chÃa pena rimaser per le cuneó
augure, e diede Ãl punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e cosà Ãl canta lÃalta mia tragedÃa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Quellà altro che neà fianchi à cosà poco, Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe Ãl gioco.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
chÃavere inteso al cuoio e a lo spago ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron lÃago,
la spuola e Ãl fuso, e fecersi Ãndivine; fecer malie con erbe e con imago.
Ma vienne omai, chà giâ¡ tiene Ãl confine dÃamendue li emisperi e tocca lÃonda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e giâ¡ iernotte fu la luna tonda:
ben ten deà ricordar, chà non ti nocque alcuna volta per la selva fondaª.
SÃ mi parlava, e andavamo introcque.
Inferno â Canto XXI
Cosà di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedÃa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo Ãl colmo, quando
restammo per veder lÃaltra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne lÃarzanâ¡ deà Viniziani
bolle lÃinverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
chà navicar non ponnoóin quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che piË vÃaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppaó:
tal, non per foco ma per divinà arte, bollia l⡠giuso una pegola spessa,
che Ãnviscava la ripa dÃogne parte.
IÃ vedea lei, ma non vedÃa in essa
mai che le bolle che Ãl bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentrà io lâ¡ giË fisamente mirava, lo duca mio, dicendo ´Guarda, guarda!ª, mi trasse a sà del loco dovà io stava.
Allor mi volsi come lÃuom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire e cui paura sËbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia Ãl partire: e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quantà elli era ne lÃaspetto fero! e quanto mi parea ne lÃatto acerbo,
con lÃali aperte e sovra i pià leggero!
LÃomero suo, chÃera aguto e superbo, carcava un peccator con ambo lÃanche,
e quei tenea deà pià ghermito Ãl nerbo.
Del nostro ponte disse: ´O Malebranche, ecco un de li anzÃan di Santa Zita!
Mettetel sotto, chÃià torno per anche
a quella terra, che nÃà ben fornita: ognà uom vÃà barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa itaª.
Lâ¡ giË Ãl buttÃ, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel sÃattuffÃ, e tornà sË convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: ´Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio! PerÃ, se tu non vuoà di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchioª.
Poi lÃaddentar con piË di cento raffi, disser: ´Coverto convien che qui balli, sà che, se puoi, nascosamente accaffiª.
Non altrimenti i cuoci aà lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perchà non galli.
Lo buon maestro ´Accià che non si paia che tu ci siaª, mi disse, ´giË tÃacquatta dopo uno scheggio, chÃalcun schermo tÃaia;
e per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, chÃià ho le cose conte,
perchà altra volta fui a tal barattaª.
Poscia passà di l⡠dal co del ponte; e comà el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu dÃaver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta chÃescono i cani a dosso al poverello
che di sËbito chiede ove sÃarresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tuttà i runcigli; ma el gridÃ: ´Nessun di voi sia fello!
Innanzi che lÃuncin vostro mi pigli, traggasi avante lÃun di voi che mÃoda, e poi dÃarruncigliarmi si consigliª.
Tutti gridaron: ´Vada Malacoda!ª;
per chÃun si mosseóe li altri stetter fermió e venne a lui dicendo: ´Che li approda?ª.
´Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venutoª, disse Ãl mio maestro, ´sicuro giâ¡ da tutti vostri schermi,
sanza voler divino e fato destro?
Lascianà andar, chà nel cielo à voluto chÃià mostri altrui questo cammin silvestroª.
Allor li fu lÃorgoglio sà caduto,
chÃeà si lascià cascar lÃuncino aà piedi, e disse a li altri: ´Omai non sia ferutoª.
E Ãl duca mio a me: ´O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riediª.
Per chÃio mi mossi e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti,
sà chÃio temetti chÃei tenesser patto;
cosà vidà Ão giâ¡ temer li fanti
chÃuscivan patteggiati di Caprona, veggendo sà tra nemici cotanti.
IÃ mÃaccostai con tutta la persona
lungo Ãl mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor chÃera non buona.
Ei chinavan li raffi e ´Vuoà che Ãl tocchiª, diceva lÃun con lÃaltro, ´in sul groppone?ª. E rispondien: ´SÃ, fa che glielà accocchiª.
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto e disse: ´Posa, posa, Scarmiglione!ª.
Poi disse a noi: ´PiË oltre andar per questo iscoglio non si puÃ, perà che giace
tutto spezzato al fondo lÃarco sesto.
E se lÃandare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso à un altro scoglio che via face.
Ier, piË oltre cinquà ore che questà otta, mille dugento con sessanta sei
anni compià che qui la via fu rotta.
Io mando verso lâ¡ di questi miei
a riguardar sÃalcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno reiª.
´TraÃti avante, Alichino, e Calcabrinaª, comincià elli a dire, ´e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegnà oltre e Draghignazzo, CirÃatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate Ãntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a lÃaltro scheggio che tutto intero va sovra le taneª.
´OmÃ, maestro, che à quel chÃià veggio?ª, dissà io, ´deh, sanza scorta andianci soli, se tu saà ir; chÃià per me non la cheggio.
Se tu seà sà accorto come suoli,
non vedi tu chÃeà digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli?ª.
Ed elli a me: ´Non voà che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno,
chÃeà fanno cià per li lessi dolentiª.
Per lÃargine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.
Inferno â Canto XXII
Io vidi giâ¡ cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
nà gi⡠con sà diversa cennamella
cavalier vidi muover nà pedoni,
nà nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
Pur a la pegola era la mia Ãntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente chÃentro vÃera incesa.
Come i dalfini, quando fanno segno
aà marinar con lÃarco de la schiena che sÃargomentin di campar lor legno,
talor cosÃ, ad alleggiar la pena,
mostravà alcun deà peccatori Ãl dosso e nascondea in men che non balena.
E come a lÃorlo de lÃacqua dÃun fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sà che celano i piedi e lÃaltro grosso,
sà stavan dÃogne parte i peccatori; ma come sÃappressava Barbariccia,
cosà si ritraÃn sotto i bollori.
Ià vidi, e anco il cor me nÃaccapriccia, uno aspettar cosÃ, comà elli Ãncontra chÃuna rana rimane e lÃaltra spiccia;
e Graffiacan, che li era piË di contra, li arrunciglià le Ãmpegolate chiome
e trassel sË, che mi parve una lontra.
Ià sapea giâ¡ di tutti quanti Ãl nome, sà li notai quando fuorono eletti,
e poi chÃeà si chiamaro, attesi come.
´O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sà che tu lo scuoi!ª, gridavan tutti insieme i maladetti.
E io: ´Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi à lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoiª.
Lo duca mio li sÃaccostà allato;
domandollo ondà ei fosse, e quei rispuose: ´Ià fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a servo dÃun segnor mi puose, che mÃavea generato dÃun ribaldo,
distruggitor di sà e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; quivi mi misi a far baratteria,
di chÃio rendo ragione in questo caldoª.
E CirÃatto, a cui di bocca uscia
dÃogne parte una sanna come a porco, li fà sentir come lÃuna sdruscia.
Tra male gatte era venuto Ãl sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia e disse: ´State in lâ¡, mentrà io lo Ãnforcoª.
E al maestro mio volse la faccia;
´Domandaª, disse, ´ancor, se piË disii saper da lui, prima chÃaltri Ãl disfacciaª.
Lo duca dunque: ´Or dÃ: de li altri rii