Poscia vidà io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verr⡠sempre, deà gelati guazzi.
E mentre chÃandavamo inverà lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne lÃetterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi Ãl pià nel viso ad una.
Piangendo mi sgridÃ: ´Perchà mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perchà mi moleste?ª.
E io: ´Maestro mio, or qui mÃaspetta, sà chÃio esca dÃun dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, frettaª.
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
´Qual seà tu che cosà rampogni altrui?ª.
´Or tu chi seà che vai per lÃAntenora, percotendoª, rispuose, ´altrui le gote, sà che, se fossi vivo, troppo fora?ª.
´Vivo son io, e caro esser ti puoteª, fu mia risposta, ´se dimandi fama,
chÃio metta il nome tuo tra lÃaltre noteª.
Ed elli a me: ´Del contrario ho io brama. LÃvati quinci e non mi dar piË lagna,
chà mal sai lusingar per questa lama!ª.
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: ´El converrâ¡ che tu ti nomi, o che capel qui sË non ti rimagnaª.
Ondà elli a me: ´Perchà tu mi dischiomi, nà ti dirà chÃio sia, nà mosterrolti, se mille fiate in sul capo mi tomiª.
Io avea giâ¡ i capelli in mano avvolti, e tratti glienà avea piË dÃuna ciocca, latrando lui con li occhi in giË raccolti,
quando un altro gridÃ: ´Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?ª.
´Omaiª, dissà io, ´non voà che piË favelle, malvagio traditor; chÃa la tua onta
io porterà di te vere novelleª.
´Va viaª, rispuose, ´e cià che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel chÃebbe or cosà la lingua pronta.
El piange qui lÃargento deà Franceschi: ìIo vidiî, potrai dir, ìquel da Duera lâ¡ dove i peccatori stanno freschiî.
Se fossi domandato ìAltri chi vÃera?î, tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segà Fiorenza la gorgiera.
Gianni deà Soldanier credo che sia
piË lâ¡ con Ganellone e Tebaldello, chÃaprà Faenza quando si dormiaª.
Noi eravam partiti giâ¡ da ello,
chÃio vidi due ghiacciati in una buca, sà che lÃun capo a lÃaltro era cappello;
e come Ãl pan per fame si manduca,
cosà Ãl sovran li denti a lÃaltro pose lâ¡ Ãve Ãl cervel sÃaggiugne con la nuca:
non altrimenti TidÃo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e lÃaltre cose.
´O tu che mostri per sà bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi Ãl perchê, dissà io, ´per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con chÃio parlo non si seccaª.
Inferno â Canto XXXIII
La bocca sollevà dal fiero pasto
quel peccator, forbendola aà capelli del capo chÃelli avea di retro guasto.
Poi cominciÃ: ´Tu vuoà chÃio rinovelli disperato dolor che Ãl cor mi preme
giâ¡ pur pensando, pria chÃio ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor chÃià rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu seà nà per che modo venuto seà qua giË; ma fiorentino
mi sembri veramente quandà io tÃodo.
Tu dei saper chÃià fui conte Ugolino, e questi à lÃarcivescovo Ruggieri:
or ti dirà perchà i son tal vicino.
Che per lÃeffetto deà suoà mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non à mestieri;
perà quel che non puoi avere inteso, cioà come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai sÃeà mÃha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha Ãl titol de la fame, e che conviene ancor chÃaltrui si chiuda,
mÃavea mostrato per lo suo forame
piË lune giâ¡, quandà io feci Ãl mal sonno che del futuro mi squarcià Ãl velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e à lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studÃose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi sÃavea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e à figli, e con lÃagute scane mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger sentià fra Ãl sonno i miei figliuoli chÃeran con meco, e dimandar del pane.
Ben seà crudel, se tu giâ¡ non ti duoli pensando cià che Ãl mio cor sÃannunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?
Giâ¡ eran desti, e lÃora sÃappressava che Ãl cibo ne solÃa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io sentià chiavar lÃuscio di sotto a lÃorribile torre; ondà io guardai
nel viso aà mieà figliuoi sanza far motto.
Io non piangÃa, sà dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: ìTu guardi sÃ, padre! che hai?î.
Percià non lagrimai nà rispuosà io tutto quel giorno nà la notte appresso, infin che lÃaltro sol nel mondo uscÃo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando chÃio Ãl fessi per voglia di manicar, di sËbito levorsi
e disser: ìPadre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spogliaî.
QuetaÃmi allor per non farli piË tristi; lo dà e lÃaltro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perchà non tÃapristi?
Poscia che fummo al quarto dà venuti, Gaddo mi si gittà disteso aà piedi,
dicendo: ìPadre mio, chà non mÃaiuti?î.
Quivi morÃ; e come tu mi vedi,
vidà io cascar li tre ad uno ad uno tra Ãl quinto dà e Ãl sesto; ondà io mi diedi,
giâ¡ cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dà li chiamai, poi che fur morti. Poscia, piË che Ãl dolor, potà Ãl digiunoª.
Quandà ebbe detto ciÃ, con li occhi torti riprese Ãl teschio misero coà denti,
che furo a lÃosso, come dÃun can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese lâ¡ dove Ãl sà suona, poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce, sà chÃelli annieghi in te ogne persona!
Che se Ãl conte Ugolino aveva voce
dÃaver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea lÃetâ¡ novella,
novella Tebe, Uguiccione e Ãl Brigata e li altri due che Ãl canto suso appella.
Noi passammo oltre, lâ¡ Ãve la gelata ruvidamente unÃaltra gente fascia,
non volta in giË, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso là pianger non lascia, e Ãl duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer lÃambascia;
chà le lagrime prime fanno groppo,
e sà come visiere di cristallo,
rÃempion sotto Ãl ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sà come dÃun callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
giâ¡ mi parea sentire alquanto vento; per chÃio: ´Maestro mio, questo chi move? non à qua giË ogne vapore spento?ª.
Ondà elli a me: ´Avaccio sarai dove di cià ti farâ¡ lÃocchio la risposta, veggendo la cagion che Ãl fiato pioveª.
E un deà tristi de la fredda crosta
gridà a noi: ´O anime crudeli
tanto che data vÃÃ lÃultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sà chÃÃo sfoghi Ãl duol che Ãl cor mÃimpregna, un poco, pria che Ãl pianto si raggeliª.
Per chÃio a lui: ´Se vuoà chÃià ti sovvegna, dimmi chi seÃ, e sÃio non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegnaª.
Rispuose adunque: ´Ià son frate Alberigo; ià son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figoª.
´Ohª, dissà io lui, ´or seà tu ancor morto?ª. Ed elli a me: ´Come Ãl mio corpo stea
nel mondo sË, nulla scÃenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte lÃanima ci cade
innanzi chÃAtropÃs mossa le dea.
E perchà tu piË volentier mi rade
le ÃnvetrÃate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che lÃanima trade
come fecà Ão, il corpo suo lÃà tolto da un demonio, che poscia il governa
mentre che Ãl tempo suo tutto sia vÃlto.
Ella ruina in sà fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de lÃombra che di qua dietro mi verna.
Tu Ãl dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli à ser Branca Doria, e son piË anni poscia passati chÃel fu sà racchiusoª.
´Io credoª, dissà io lui, ´che tu mÃinganni; chà Branca Doria non morà unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panniª.
´Nel fosso s˪, dissà el, ´deà Malebranche, lâ¡ dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi lascià il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano
che Ãl tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhiª. E io non glielà apersi; e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
dÃogne costume e pien dÃogne magagna, perchà non siete voi del mondo spersi?
Chà col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito giâ¡ si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Inferno â Canto XXXIV
´Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; perà dinanzi miraª, disse Ãl maestro mio, ´se tu Ãl discerniª.
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando lÃemisperio nostro annotta, par di lungi un molin che Ãl vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, chà non là era altra grotta.
Giâ¡ era, e con paura il metto in metro, lâ¡ dove lÃombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante;
altra, comà arco, il volto aà pià rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
chÃal mio maestro piacque di mostrarmi la creatura chÃebbe il bel sembiante,
dÃinnanzi mi si tolse e fà restarmi, ´Ecco Diteª, dicendo, ´ed ecco il loco ove convien che di fortezza tÃarmiª.
Comà io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, chÃià non lo scrivo, perà chÃogne parlar sarebbe poco.
Io non morià e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, sÃhai fior dÃingegno, qual io divenni, dÃuno e dÃaltro privo.
Lo Ãmperador del doloroso regno
da mezzo Ãl petto uscia fuor de la ghiaccia; e piË con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quantà esser dee quel tutto chÃa cosà fatta parte si confaccia.
SÃel fu sà bel comà elli à ora brutto, e contra Ãl suo fattore alzà le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quandà io vidi tre facce a la sua testa! LÃuna dinanzi, e quella era vermiglia;
lÃaltrà eran due, che sÃaggiugnieno a questa sovresso Ãl mezzo di ciascuna spalla,
e sà giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di lâ¡ onde Ãl Nilo sÃavvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grandà ali, quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vidà io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sà che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto sÃaggelava.
Con sei occhi piangÃa, e per tre menti gocciava Ãl pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea coà denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sà che tre ne facea cosà dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso Ãl graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla.
´Quellà anima lâ¡ sË cÃha maggior penaª, disse Ãl maestro, ´à Giuda ScarÃotto, che Ãl capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due cÃhanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo à Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e lÃaltro à Cassio, che par sà membruto. Ma la notte risurge, e oramai
à da partir, chà tutto avem vedutoª.
Comà a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste,
e quando lÃali fuoro aperte assai,
appiglià sà a le vellute coste;
di vello in vello giË discese poscia tra Ãl folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo lâ¡ dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de lÃanche, lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ovà elli avea le zanche, e aggrappossi al pel comà om che sale,
sà che Ãn inferno ià credea tornar anche.
´Attienti ben, chà per cotali scaleª, disse Ãl maestro, ansando comà uom lasso, ´conviensi dipartir da tanto maleª.
Poi uscà fuor per lo fÃro dÃun sasso e puose me in su lÃorlo a sedere;
appresso porse a me lÃaccorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero comà io lÃavea lasciato, e vidili le gambe in sË tenere;
e sÃio divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede qual à quel punto chÃio avea passato.
´LÃvati s˪, disse Ãl maestro, ´in piede: la via à lunga e Ãl cammino à malvagio, e giâ¡ il sole a mezza terza riedeª.
Non era camminata di palagio
lâ¡ Ãvà eravam, ma natural burella chÃavea mal suolo e di lume disagio.
´Prima chÃio de lÃabisso mi divella, maestro mioª, dissà io quando fui dritto, ´a trarmi dÃerro un poco mi favella:
ovà à la ghiaccia? e questi comà à fitto sà sottosopra? e come, in sà pocà ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?ª.
Ed elli a me: ´Tu imagini ancora
dÃesser di lâ¡ dal centro, ovà io mi presi al pel del vermo reo che Ãl mondo fÃra.
Di lâ¡ fosti cotanto quantà io scesi; quandà io mi volsi, tu passasti Ãl punto al qual si traggon dÃogne parte i pesi.
E seà or sotto lÃemisperio giunto
chÃÃ contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto Ãl cui colmo consunto
fu lÃuom che nacque e visse sanza pecca; tu haà i piedi in su picciola spera
che lÃaltra faccia fa de la Giudecca.
Qui à da man, quando di l⡠à sera; e questi, che ne fà scala col pelo,
fitto à ancora sà come primà era.
Da questa parte cadde giË dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fà del mar velo,
e venne a lÃemisperio nostro; e forse per fuggir lui lascià qui loco vÃto
quella chÃappar di qua, e sË ricorseª.
Luogo à lâ¡ giË da BelzebË remoto tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono à noto
dÃun ruscelletto che quivi discende
per la buca dÃun sasso, chÃelli ha roso, col corso chÃelli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver dÃalcun riposo,
salimmo sË, el primo e io secondo,
tanto chÃià vidi de le cose belle che porta Ãl ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
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TAVOLA DEI CARATTERI SPECIALI
TABLE OF SPECIAL CHARACTERS
â¡ = a grave
à = e grave
à = i grave
à = o grave
Ë = u grave
à = e acute
à = o acute
â° = a uml
à = e uml
à = i uml
Ë = o uml
¸ = u uml
» = E grave
à = E uml
Å = I uml
´ = left angle quotation mark
ª = right angle quotation mark
ì = left double quotation mark
î = right double quotation mark
ë = left single quotation mark
à = right single quotation mark
ó = em dash
â = middot
. . . = ellipsis